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Criptovalute di Stato, guerra al bitcoin?

Dopo la Cina, anche in Occidente cresce la spinta a creare valute digitali emesse dalle banche centrali. Una minaccia per banche commerciali e criptovalute

Mentre si moltiplicano i segnali che le criptovalute “apolidi” stanno dirigendosi verso l’adozione, a livello di investimenti di portafoglio ma anche di mezzo di transazione, malgrado la spiccata volatilità (che tuttavia potrebbe quietarsi proprio a seguito dell’aumentato utilizzo), le banche centrali discutono l’idea di creare proprie valute digitali, con finalità differenti tra i paesi ma con opportunità e rischi per interi settori economici.

Dell’esperimento cinese con le criptovalute di stato si è detto. Qui l’esigenza prioritaria resta quella di tenere sotto controllo gli intermediari privati, giunti a dominare i servizi di pagamento e controllare la raccolta di dati sul merito di credito e le abitudini di consumo dei clienti, finendo col diventare pericolosi concorrenti per l’occhio dello Stato, che punta ad avere il monopolio dell’utilizzo dei dati personali nella sorveglianza dei cittadini.

La differenza tra Cina e Occidente

In Occidente la situazione è in apparenza differente. Prendendo per buona l’ipotesi che il controllo sociale non sia la motivazione dominante per la creazione di valute digitali da parte delle banche centrali (CBDC, Central Bank Digital Currency), il sistema dei pagamenti è presidiato dal settore privato ma i flussi passano necessariamente dal settore bancario, e da quest’ultimo si arriva al regolamento ultimo attraverso la Federal Reserve, col sistema Fedwire.

E quindi, quale potrebbe essere la motivazione per lo sviluppo di criptovalute di Stato? Si tende a identificarla nell’inclusione nel sistema dei pagamenti degli strati di popolazione che non hanno accesso al sistema bancario. La diffusione degli smartphone consentirebbe a chiunque di avere rapporti di pagamento digitale usando il proprio portafoglio elettronico in contropartita della banca centrale.

Minaccia esistenziale per le banche

Iniziativa senza dubbio lodevole ma anche una minaccia esistenziale al sistema creditizio. Dobbiamo aiutare i non bancabili ma così facendo finiremmo a mettere fuori gioco le banche nel loro ruolo di intermediari del sistema dei pagamenti. Se ogni cittadino fosse in grado di aprirsi un conto digitale presso la banca centrale, a che servirebbero le banche commerciali? A ben poco, almeno nell’ambito del sistema dei pagamenti. Che tuttavia è strettamente connesso all’offerta di servizi a maggiore marginalità per le banche.

La creazione di wallet digitali presso la banca centrale avrebbe anche la funzione di canale diretto delle erogazioni pubbliche, bypassando le banche. Si pensi ad esempio agli aiuti pubblici durante la pandemia, con le difficoltà a raggiungere i non bancabili.

Il passo successivo è chiedersi che probabilità di cooperazione internazionale potrebbe esistere tra una serie di portafogli digitali nazionali. Se da un lato è vero che il canale si presta perfettamente ad abbattere i costi di intermediazione di alcune rilevanti forme di trasferimento transfrontaliero di fondi, come le rimesse degli emigrati, è altrettanto innegabile che le autorità nazionali avrebbero serie remore ad autorizzare l’installazione nei dispositivi elettronici di propri cittadini di borsellini digitali stranieri, perché così facendo potrebbero perdere il controllo dei flussi finanziari domestici, in particolare precludendosi l’adozione di eventuali controlli sui capitali.

Portafogli digitali “infiltrati” all’estero

Servirebbero quindi accordi internazionali per rendere interoperabili i portafogli digitali nazionali. Iniziative che sarebbero equivalenti allo scambio automatico di informazioni, quindi con ricadute fiscali, sempre ammesso che i singoli stati nazionali decidano che i benefici della cooperazione siano prevalenti su quelli della concorrenza fiscale. Non quella distorsiva degli apolidi fiscali ma quella più sana tra sistemi paese.

Come si nota da queste considerazioni per nulla esaustive, ci sono numerose “parti mobili” nell’adozione di criptovalute nazionali. Dal controllo dei flussi finanziari, per qualsivoglia finalità (di politica monetaria e fiscale), alla minaccia di destabilizzare il settore bancario privato, che potrebbe rifugiarsi sotto l’ala protettiva dello Stato, che in tal modo realizzerebbe una notevole spinta alla nazionalizzazione o comunque al controllo indiretto da parte della élite che lo presidia pro tempore.

Il futuro delle criptovalute “anarchiche”

E le criptovalute orginarie, quelle anarco-libertarie, diciamo così? Da un lato, la loro accettazione da parte del mainstream, con l’inserimento in portafogli di investimento, rende teoricamente più difficile la loro soppressione per mano delle autorità pubbliche. A questo riguardo, già emergono analisi piuttosto futuristiche da parte di banche d’investimento globali come l’americana Citigroup, che di recente si è spinta a vedere il bitcoin nientemeno che come valuta di elezione per il commercio mondiale.

Uno scenario che mi pare potrebbe avverarsi solo nell’ipotesi di caos monetario globale, con il collasso della dominanza del dollaro. O forse neppure in quel caso. Restano alcuni punti fermi, fuori da questa letteratura fantasy. In primo luogo, equiparare le criptovalute all’oro e alla funzione anti inflazione di quest’ultimo resta ipotesi eroica. Inoltre, le correlazioni delle criptovalute con altri asset globali non mostrano particolari benefici di diversificazione, al momento. Pare più una rincorsa rialzista generalizzata da eccesso di liquidità globale.

Riguardo alle motivazioni “difensive” rispetto all’occhiuta interferenza statale nell’utilizzo di bitcoin e affini, non serve essere esperti per intuire che per investire in criptovalute serve passare dal canale formale dell’intermediazione finanziaria, quindi le autorità potrebbero porre fine al gioco con un tratto di penna o premendo un pulsante localizzato nelle banche. Sia in Cina che in Occidente.

La spinta ambientalista contro il bitcoin

Magari con la motivazione ufficiale che tali valute digitali sono fortemente nocive per l’ambiente, data la natura fortemente energivora della loro produzione. Anche il paradigma ESG potrebbe servire alla loro soppressione, nell’ambito di una eventuale guerra di comunicazione e simbolismi. Le valute digitali di banca centrale non hanno questo problema. Pertanto, l’istituzionalizzazione delle criptovalute apolidi dipenderà in modo decisivo dall’acquiescenza del potere statale e dalla cattura di quest’ultimo da parte del settore privato. Giusto per fare un po’ di teoria delle élite, ché non guasta mai.

Come che sia, il cantiere digitale globale resta aperto. Dalla sua evoluzione deriveranno vantaggi competitivi geopolitici o perdita dei medesimi, per i leader attuali e aspiranti tali.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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