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Cotone sulla pelle: ovvero l’importanza di sapere l’effetto che fa

Se è vero che il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano all’altro capo del mondo e se ammettiamo l’ineludibile concatenazione degli eventi in un mondo ormai globalizzato, vale forse la pena di soffermarsi su una questione di cui si dibatte da tempo e che, davvero, viviamo sulla nostra pelle.

Tra le mille cose che ignoriamo o che semplicemente ci sfuggono, la questione del come e a quale prezzo venga prodotto (tutto o in buona parte) il cotone degli indumenti che indossiamo non è forse tra le principali, ma si tratta di un argomento su cui è opportuno spendere un po’ di tempo e di attenzione, se non altro per comprendere come le questioni possano essere diversamente presentate e interpretate e quanto sia difficile costruirsi un parere ragionevolmente fondato e solido. E siccome i fatti sono (dovrebbero essere) un pilastro di certezza in un mare di opinioni, stavolta vorremmo difendere il dovere di conoscere i fatti e il diritto di farsi un’opinione.

“Ognuno ha diritto alla sua opinione, ma non alla sua versione dei fatti” dicono gli inglesi e dai fatti è il caso di partire.

Antefatto

Nel 2001 l’India ha la più grande estensione coltivata a cotone al mondo, ma è solo il terzo produttore dopo Cina e USA con una produttività insoddisfacente (266 kg per ettaro contro i 671 kg per ettaro della Cina) per ragioni legate essenzialmente alla bassa percentuale di terre irrigate (35%) e alla scarsa disponibilità di semi ibridi di qualità (il 30% dei contadini indiani usa ancora semi auto-prodotti non ibridi con basse rese e scadente qualità). A fronte di una superficie coltivata pari appena al 5% del totale, si consuma per il cotone il 45% dei pesticidi e il 58% di tutti gli insetticidi impiegati nel paese: un uso indiscriminato legato essenzialmente alla mancanza di conoscenze adeguate da parte dei contadini e al tentativo disperato di sostenere una produzione stentata eppure necessaria alla sopravvivenza. Con l’effetto, non secondario, di un costo di produzione altissimo e di un impatto ambientale devastante.

I fatti

Nel 2002 si introduce sul mercato indiano una varietà di cotone geneticamente modificato (denominato cotone Bt) prodotto dalla Monsanto, multinazionale americana specializzata in sementi transgeniche: il cotone Bt contiene uno o più geni capaci di produrre proteine che sono mortali per alcuni insetti, tra cui alcuni parassiti del cotone, ma assolutamente innocue per i mammiferi. Tanto da essere usato, direttamente sotto forma di batterio, anche in agricoltura convenzionale e biologica.

In virtù di questa capacità della pianta di difendersi da sé dall’attacco dei parassiti, la varietà Bt promette aumento delle rese e riduzione dell’impiego di pesticidi chimici dunque – in una coltura che assorbe da sola circa il 20% di tutti i pesticidi impiegati al mondo – riduzione dei costi di produzione, aumento della marginalità di guadagno per i contadini (a fronte di un costo delle sementi molto più alto) e deciso miglioramento dal punto di vista della tutela dell’ambiente e delle condizioni di salute dei contadini stessi.

I numeri

Inizialmente il cotone Bt viene impiegato da una piccola quota di contadini indiani (50.000, appena il 5%, nei primi 2 anni) salvo poi diffondersi in tutto il paese fino a raggiungere nel 2011 il 90% di penetrazione del mercato con 7 milioni di contadini utilizzatori e circa 800 varietà vendute.

In base ai dati forniti dal Ministero del Tessile indiano, le rese di cotone per ettaro coltivato aumentano significativamente a partire dal 2002, anno di introduzione del cotone Bt: l’India passa da circa 300 kg per ettaro del 2002-2003 al record di 554 kg per ettaro nel 2007-2008 (per poi fluttuare attorno a 500 negli ultimi anni), diventa paese esportatore di cotone (non più importatore) e si attesta alla seconda posizione tra i produttori mondiali.

In parallelo si riduce l’utilizzo dei pesticidi, particolarmente (nella misura del 70%) di quelli che secondo la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono i più tossici per la salute umana e per l’ambiente. I semi costano di più, ma in media, in virtù del ridotto impiego di pesticidi e della maggiore resa del terreno, gli agricoltori guadagnano di più.

Insomma, le rese aumentano, la produzione pure, i pesticidi diminuiscono, il reddito dei contadini cresce.

Le accuse

Il cotone Bt è al centro da qualche anno di feroci polemiche da parte di numerose ONG: considerato un fallimento su tutti i fronti e accusato di aver mancato tutte le promesse, è posto alla radice del precipitare delle condizioni di vita e di lavoro dei contadini indiani, con un impatto economico e sociale devastante.

Stando a quanto sostenuto, il cotone Bt non è in grado di resistere agli attacchi dei più comuni parassiti per cui le piante si ammalano e la produzione crolla. La qualità della fibra di cotone prodotta da queste piante è scadente e ciò fa abbassare il suo valore di mercato. I suoli agricoli si impoveriscono fino alla sterilità, i nuovi parassiti si moltiplicano e gli animali domestici muoiono inspiegabilmente dopo aver pascolato tra i residui del cotone geneticamente modificato.

Al dramma ambientale ed economico si aggiunge quello sociale: dal 1997 al 2010 oltre 250.000 agricoltori si sono suicidati a causa dei debiti contratti per acquistare questi semi (il costo è circa 31.00 € per acro per il cotone Bt contro 9.00 € per acro per il cotone convenzionale) e dei risultati scadenti ottenuti dalla loro coltivazione.

In definitiva l’introduzione del cotone Bt ha provocato in India diminuzione delle rese e della produzione, abbassamento del livello qualitativo del prodotto ottenuto, effetti ambientali devastanti in termini di impoverimento del suolo e impiego massiccio di pesticidi e un dramma sociale che si quantifica in centinaia di migliaia di suicidi di contadini ridotti sul lastrico.

Lo sostengono ONG come Greenpeace, attivisti come Vandana Shiva, in generale una folta schiera di convinti avversatori delle pratiche transgeniche e di appassionati difensori dei diritti dei più deboli (in questo caso i piccoli agricoltori indiani stretti tra la morsa del bisogno, le promesse di una multinazionale e le pressioni dei creditori). Lo raccontano numerosi video, compreso “Behind the label“ il docufilm di Sebastiano Tecchio e Cecilia Mastrantonio che descrive le conseguenze ambientali e sociali causate dalla coltivazione di cotone geneticamente modificato in India.

Continua nel prossimo post con il dramma dei suicidi di contadini e la diffusione del cotone Bt in India.

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