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Corte Costituzionale e Agrigento: sempre sia lodata

Piovve per qualche giorno e nelle prime ore del 19 luglio 1966 una frana sconvolse Agrigento e l’opinione pubblica scossa anche per l’eliminazione dai mondiali di calcio, dopo la frana della nazionale nell’incontro con la Corea del Nord. Nel giro di un’ora scivolarono a valle migliaia di metri cubi di terra, ma subito dopo i primi smottamenti migliaia di persone si misero in salvo. Alcuni palazzi in cemento si accartocciarono. Un centinaio i feriti, 1.200 i senza casa. Giacomo Mancini, Ministro dei Lavori Pubblici, affidò immediatamente al direttore generale dell’Urbanistica, Michele Martuscelli, il compito d’individuarne le cause. Dopo due mesi, l’indagine ministeriale rivelò che la frana era la conseguenza dei lavori d’intaglio della parte più delicata del monte per realizzare nuove costruzioni lungo i fianchi scoscesi. Fin dalla metà degli anni Cinquanta, la rocca su cui sorgeva il nucleo storico della città era stata circondata da un anello di palazzi. Sulle strade di 6 metri erano previsti edifici di 15 metri ed a lato di quelle di 12 metri potevano sorgere palazzi alti fino a 30 metri. La città aveva 40 mila abitanti, ma il piano di fabbricazione era commisurato per insediarne altri 120mila. Al ritmo record, nel 1965, di 5mila nuovi vani all’anno.

Una pratica diffusa in molti luoghi ed evidenziata senza luoghi comuni dalla relazione Astengo-Martuscelli. «Gli operatori si sono preoccupati di costruire solo case, traendo il massimo sfruttamento delle aree, intaccando le falde della rupe singolarmente, con opere inadeguate di consolidamento, senza provvedere alla regolazione delle acque di superficie, oltre che degli scarichi delle acque luride, senza preoccuparsi di sistemare il terreno sconvolto dalle opere». Un memorabile intervento di Mario Alicata accese il dibattito parlamentare. Giovanni Astengo scrisse poi che alla radice di ogni dissesto «sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatori. In entrambi i casi, la natura, irragionevolmente sfidata, ha scatenato d´improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici. In entrambi i casi, alla radice è l´imprevidenza umana».
 
Ventisette imputati (sindaci, amministratori, funzionari comunali e del genio civile) per “frana colposa” furono assolti “per non aver commesso il fatto”. Tuttavia, l’entità dei danni provocati da una gestione del territorio governata dalla miopia pubblica e dalla rapacità privata apparve sempre più evidente anche a seguito d’altri eventi “naturali” quali l’esondazione dell’Arno a Firenze e l’alta marea a Venezia ed indusse il Governo a cercare rimedi. Per iniziativa di Mancini venne approvata una legge (un “ponte” verso una più compiuta riforma) per rendere un po’ più incisiva la pianificazione urbanistica. In tutti i comuni sprovvisti di strumento urbanistico vennero limitate le possibilità edificatorie e tutti i comuni dotati di piano regolatore furono obbligati ad indicarvi delle quantità minime di spazio da riservare all’uso pubblico. Con un ritardo di decenni su altri paesi europei, un decreto ministeriale dell’aprile del 1968, in attuazione della legge-ponte, stabilì che ogni cittadino avesse diritto ad un minimo di 18 mq. di spazio pubblico (4,5 mq per asili nido, scuole materne e dell’obbligo; 2 mq per attrezzature d’interesse comune culturali, assistenziali, amministrative, religiose, sociali e sanitarie; 2,5 mq per parcheggi; 9 mq per il verde, il gioco e lo sport). Ad esempio, varando un piano regolatore che permetteva la costruzione di 500mila metri cubi per 5mila abitanti insediabili su 250mila mq edificabili, il comune di Mavalà doveva vincolare almeno 90mila mq di suolo per Pubbliche Attrezzature. Così, mentre il proprietario di un terreno edificabile poteva ricavare immediatamente i benefici della rendita fondiaria, il terreno vincolato non rendeva nulla di più del valore d’esproprio ed il proprietario non aveva neppure la certezza di venire indennizzato in tempi determinati, anche perché l’Amministrazione pubblica era spesso priva di mezzi per acquisire i terreni necessari a realizzare i servizi elementari nelle nuove aree residenziali e perciò indennizzare i proprietari espropriati.

 
L’avvocato Mavalà protestò ed un giudice ordinario chiese il pronunciamento della Consulta. Nella sentenza n° 55, la Corte costituzionale stabilì l’illegittimità delle norme che, senza la previsione d’indennizzo, fissano dei vincoli che, pur consentendo la titolarità del bene, sono tuttavia destinati ad operare immediatamente una “definitiva incisione profonda, al di là dei limiti connaturali sulle facoltà di utilizzabilità esistenti al momento dell’imposizione”. Per questi motivi, ovvero per la disparità di trattamento dei cittadini, alcuni articoli della legge-ponte vennero dichiarati incostituzionali.
 
La pubblicazione della Sentenza provocò indignazione e stupore, non solo tra urbanisti e giuristi, ma in molti ambienti politici ed amministrativi. Per la Corte costituzionale sono di natura “espropriativa”, e perciò illegittimi se non indennizzati, quei vincoli che individuano gli spazi da destinare a impianti pubblici e di uso pubblico. Giacomo Mancini, ministro dei lavori pubblici sostenne che le conseguenze sulla governabilità del territorio fossero “molto gravi” e tali da determinare “un disorientamento nelle amministrazioni locali, proprio in un momento in cui la pianificazione comunale, anche per effetto della recente legge-ponte si trova in una fase di concreto e promettente rilancio …”. Durissime anche le reazioni degli urbanisti impegnati nel dibattito politico e culturale. Alcuni ritennero la Consulta politicamente orientata a destra ed il dispositivo teso a favorire gli interessi della proprietà privata a scapito di quelli dei cittadini comuni. Aldo Sandulli, in qualità di presidente della Corte e quindi di primo ispiratore della sentenza n° 55, dichiarò: “Le sentenze della Corte non dovrebbero essere criticate se non a livello giuridico, e cioè se non al fine di vagliarne la corrispondenza alla Costituzione: al qual riguardo occorrono, naturalmente, le necessarie conoscenze tecniche. Taluni, invece, pur proclamandosi assertori dello Stato di diritto, e pur vantando per ciò come una conquista della democrazia la presenza nel nostro ordinamento di una giustizia costituzionale, destinata ad assicurare protezione alle minoranze, sono poi pronti a scagliarsi disinvoltamente contro la prima sentenza della Corte il cui dispositivo non si armonizzi con le loro idee ed i loro interessi, risparmiandosi persino il fastidio di leggerne la motivazione. Questo significa volere una giustizia costituzionale a senso unico; che è proprio l’opposto della giustizia dello stato di diritto».
 
Attendiamo la motivazione della Sentenza d’oggi per vedere se contiene, come quella del 1968, pure delle indicazioni di scelte operative alternative a quella implicita del ricorso ad una legge costituzionale.
 
Nel nostro racconto ci siamo dimenticati di menzionare Giuseppe Saragat ed Aldo Moro (ai tempi, rispettivamente, Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio) e non abbiamo ritenuto di considerare né i La-va-ma.. né i miglior-imputati-degli-ultimi-150-anni perché oggi siamo troppo felici. Meno male che la Corte c’é. Sempre sia lodata.

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