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Come impedire che aziende Occidentali aiutino i regimi a sorvegliare i dissidenti

Regimi autoritari che intercettano conversazioni telefoniche tra dissidenti, leggono la loro posta elettronica, ne tracciano ogni movimento grazie a programmi venduti da aziende Occidentali. E’ una realtà che, nel corso degli anni, ha sviluppato un mercato da almeno 5 miliardi di dollari. Ma che produce un costo elevatissimo: i diritti umani, quando non le vite, degli oppositori.

Per porre fine a questa pericolosa prassi, l’Electronic Frontier Foundation (EFF) ha steso una breve ma dettagliata proposta in un ‘libro bianco’ intitolato Human Rights and Technology Sales: How Corporations Can Avoid Assisting Repressive Regimes, appena pubblicato. La questione è tutt’altro che semplice, perché gli strumenti che – usati senza rispetto per i diritti umani – aiutano i dittatori a reprimere la dissidenza, sono gli stessi che consentono la protezione degli utenti anche nelle democrazie: per garantire la sicurezza nazionale, per esempio, o scandagliare le comunicazioni online per punire un crimine.

E’ il cosiddetto problema del ‘dual use’. Come risolverlo? Secondo EFF non è possibile farlo concentrandosi su vincoli da apporre alle specifiche tecniche degli strumenti utilizzati. Ben più proficuo è concentrarsi sull’utente, e sull’utilizzo che ne fa. E’ una strategia, scrivono Cindy Cohn, Trevor Timm e Jillian C. York, che «minimizza il rischio di danni collaterali.» E si basa su due punti fermi: la trasparenza e l’approccio Know Your Customer (Conosci il tuo cliente).

Riguardo alla trasparenza, già il fatto che diverse inchieste (dal Wall Street Journal a Bloomberg, passando per gli SpyFiles di WikiLeaks) abbiano sollevato il velo di segretezza che avvolgeva questo tipo di transazioni è un fattore importante. Perché costringe chi vende a farsi carico della responsabilità delle possibili conseguenze della vendita. Un prezzo troppo alto, in termini di immagine, come testimoniato dai passi indietro di Websense e Trevicor nel 2009, e dell’italiana Area Spa nel 2011. Ma il lavoro della stampa non basta: devono essere le aziende stesse a impegnarsi con rapporti volontari che dettaglino le proprie transazioni. Qualora si rifiutassero, scrive il ‘libro bianco’, dev’essere il governo ad accertarsi che non siano in corso violazioni dei diritti umani.

E si giunge al secondo punto, ‘conoscere il proprio cliente’. Devono essere le aziende stesse a investigare attivamente – predisponendo processi chiari, codificati e trasparenti, coordinati da una figura apposita, il Chief Human Rights Officer – le intenzioni dei governi a cui vendono le proprie tecnologie, «prima e durante la transazione». Che uso potranno farne? E che impatto avrà sui diritti umani dei cittadini? Se l’inchiesta dovesse portare a «prove oggettive» o almeno a «preoccupazioni credibili» che la vendita possa condurre a violazioni dei diritti umani, la transazione non deve avere luogo, argomenta EFF.

Se le aziende non dovessero procedere ad adottare la prospettiva Know Your Customer volontariamente (scelta che la renderebbe maggiormente efficace), dovrebbe intervenire il legislatore. Qualcosa si è mosso negli scorsi mesi al Parlamento europeo, ma anche negli Stati Uniti. Dove è allo studio una norma chiamata Global Online Freedom Act 2012 che, scrivono gli autori, «contiene molte buone regole». A partire da requisiti di trasparenza e dall’obbligo di rendere verificabile il processo di indagine dei governi acquirenti da parte delle aziende da soggetti terzi e dunque indipendenti.

L’idea è buona, e – come evidenziato nel ‘libro bianco’ – non richiede particolari stravolgimenti legislativi o nella vita economica delle aziende coinvolte (secondo Privacy International, oltre un centinaio). Alcuni (Nokia), scottatisi in passato con la condanna dell’opinione pubblica, si sono già dotati di un codice per i diritti umani. Altri (Websense) hanno aderito alla Global Network Initiative, una organizzazione non governativa che cerca di promuovere un approccio multistakeholder al problema. Vi fanno già parte Microsoft, Google e Yahoo.

Come scrive la co-fondatrice di Global Voices, Rebecca MacKinnon, è tempo di passare da una gestione autoritaria, hobbesiana, dei diritti dei cittadini digitali da parte di aziende e governi, a un «consenso dei connessi» che ricordi più da vicino le conquiste politiche del pensiero del filosofo John Locke. E inserisca i netizen al centro dei processi decisionali. Portare la responsabilità sociale d’impresa sul terreno della sorveglianza digitale – e, in caso il tentativo fallisca, leggi più severe – potrebbe essere un primo, decisivo, passo.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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