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Come cambia il cinema: Rossellini, il neorealismo e il cinema dei nostri giorni

Credo sia impossibile argomentare a contrario intorno alla affermazione, di cui qui do per scontata la veridicità, secondo cui i film della trilogia della guerra diretti a partire dal 1945 da Roberto Rossellini (Roma città aperta è, appunto, del 1945, Paisà del 1946, Germania anno zero del 1947) continuano a rimanere tra i maggiori capolavori dell’arte cinematografica di tutti i tempi. Di certo le tre opere citate rappresentano la vetta artistica più alta raggiunta dal movimento neorealista di cui Rossellini è, per quanto riguarda il cinema, caposcuola indiscusso. 

Il cinema neorealista dura una manciata d’anni: mentre sembra ragionevole fissare la sua data d’inizio al 1943 (l’anno del viscontiano Ossessione) la sua spinta propulsiva si esaurisce tra il 1945 di Roma città aperta di Roberto Rossellini e il 1948 di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica e La terra trema (Bertetto 2004), sempre di Luchino Visconti. L’altro capolavoro di De Sica, Sciuscià, esce nel 1946. Oggi ricordiamo, non senza farci impressionare dalla circostanza, che ognuno dei tre film rosselliniani citati ebbe nel nostro Paese un misero riscontro in termini di pubblico e di critica. Per contro, occorre aggiungere, Germania anno zero fu premiato al Festival di Locarno mentre Roma città aperta lo fu a Cannes, nel 1946. E’ difficile anche solo immaginare lo stesso Rossellini aspettarsi di ricevere, per ognuno di questi suoi tre film, il successo che nel corso degli anni successivi fu ad essi meritatamente tributato. Roma città aperta, per esempio, nasce e diventa l’opera che conosciamo per via di circostanze del tutto fortuite. Enrico Livraghi sostiene che “E’ risaputo che all’inizio il film doveva essere un documentario su Don Morosini, un prete fucilato dai nazisti nel 1944. Ma il peso degli eventi ancora freschi, e delle piaghe ancora aperte, e il rovente ricordo della paura, della clandestinità forzata, delle spie collaborazioniste annidate in ogni angolo, della miseria e della fame, avevano finito con il travolgere, quasi, l’intenzione del regista e dei soggettisti Sergio Amidei e Alberto Consiglio, fino a dilatarla ad abbracciare l’esperienza drammatica di un’intera città. Si era aggiunto poi Federico Fellini, giovanissimo, che aveva introdotto nella sceneggiatura il segno della narrazione, e Roma città aperta aveva acquistato il suo profilo definitivo, diventando un film a soggetto.” Inoltre, si sostiene, ponendosi in controtendenza rispetto ai canoni stilistici allora in voga nel cinema italiano ma non solo, “Nella sua trilogia resistenziale, composta da Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero, l’atteggiamento dell’autore trova un immediato corrispettivo in un innovativo e personalissimo stile <antispettacolare>” (Bertetto 2004). Pare opportuno sottolineare che la poetica e l’idea che del cinema aveva Rossellini rigettavano le ricostruzioni artificiali e non attendibili del reale. Il neorealismo, sulla scorta dei caratteri distintivi del movimento letterario analogo che si sviluppò negli anni dal venticinque al trenta del secolo scorso e delle opere di Brancati, Bernari, Vittorini, Silone, Moravia, Alvaro ed altri fece proprio questo: cercò di offrire una visione del mondo quanto più possibile aderente a ciò che poteva essere riscontrato nella realtà di ogni giorno. L’utilizzo prevalente di attori non professionisti, le riprese effettuate in esterni ‘veri’ e non ricostruiti in studio, l’utilizzo della macchina da presa, strumentalmente orientata a far conoscere allo spettatore ogni singolo movimento dei personaggi del film, l’assoluta penuria di mezzi con cui le troupes cinematografiche dovevano fare i conti in fase di lavorazione delle opere, costituiscono caratteristiche essenziali di questo nuovo modo di fare cinema. Un ribaltamento stilistico totale rispetto agli sperimentati canoni fino ad allora vigenti, quelli di Cinecittà e del cinema propagandistico fascista nonché quelli della magnificente industria hollywoodiana. E’ pur vero che in tempi difficili come quelli in cui i cineasti del neorealismo si trovarono a dover operare la realtà tragica delle cose da narrare poteva essere ricostruita, scenograficamente parlando, in modo pressoché immediato. In questo senso, materiale scenografico in abbondanza offrivano le macerie di Berlino e quelle di Napoli o di Roma, i muri delle case crivellati dai proiettili, le miserevoli condizioni di vita nei piccoli centri abitati, le paure della gente, l’angoscia continua e le ferite ancora aperte, inferte dalla guerra allo spirito degli uomini prima ancora che al loro corpo. Ma certo dovette esserci anche dell’altro, dietro al seguito straordinario che il cinema neorealista ebbe in tutto il mondo soprattutto dopo la fine della sua breve esistenza. E’ l’amorosa attenzione prestata dall’artista all’uomo e al dolore degli indigenti, ai sentimenti veri, alle sconvolgenti condizioni di estrema precarietà in cui il sud del nostro Paese si dibatteva. Tutto questo dobbiamo al cinema di Rossellini e, in generale, ai capolavori diretti da quella sparuta pattuglia di uomini di cinema che nell’immediato dopoguerra produsse e diresse opere che rimarranno per sempre nella storia del cinema non solo italiano. Il segno di Rossellini e tracce di neorealismo, infatti, negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale rimarranno impresse nel cinema francese della Nouvelle vague, nella poetica dei registi americani della new Hollywood, in certi capolavori del cinema dell’est tedesco e finanche in molte delle perle del cinema giapponese. Uno dei più ascoltati guru della fantascienza, Bruce Sterling, ha sostenuto che “Se finiscono i problemi muoiono le storie del cinema, e l’unico modo per ripartire rimane quello di distruggere ogni civiltà. Le catastrofi infatti riportano gli attori alle situazioni dei vecchi film, e per gli sceneggiatori è più facile così che inventare trame adatte alla modernità. Il percorso del cinema per costruire effetti speciali sempre più realistici si è compiuto.” Le interessanti osservazioni di Sterling arrivano quando già sono stati consegnati alla storia del cinema film come L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam, Matrix dei fratelli Wachowsky e Avatar di James Cameron, film, quest’ultimo, denso di innovazioni tecnologiche che lo caratterizzano, in particolare l’impiego del tridimensionale. Ma per rimanere al cinema italiano: la nostra realtà quotidiana, così come si presenta, cioè sempre più problematica e tragica, abbonda (non molti, nel nostro paese sembrano averlo capito) di soggetti che dovrebbero risvegliare l’interesse degli autori di cinema e dei produttori. Ma anche in Italia, purtroppo, si continuano a preferire le fiction televisive e il cinema d’evasione. 

 

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