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Cinema documentario & Musica: The Blues – L’anima di un uomo (2003), di Wim Wenders

A volte mi domando quale musica avremmo oggi ascoltato se il blues non fosse esistito. Ci pensate? Anche il jazz non sarebbe mai nato e tutto nell’ambito delle sette note, senza la radice forte rappresentata da questo genere musicale attraverso cui la gente di colore usava raccontare le proprie sofferenze dovute al duro lavoro da schiavi, sarebbe stato diverso. Arrigo Polillo, critico tra i più conosciuti e influenti dell’intero panorama mondiale degli esperti di musica nera ha osservato che si sa per certo che forme molto primitive di canto – come appunto i cries – coesistevano nel Meridione degli Stati Uniti con forme assai più evolute, come le ballate, ed è molto più difficile di quanto non si fosse per lungo tempo pensato stabilire una sia pure approssimativa data di nascita per certi canti che sono i diretti antecedenti del jazz, e cioè i primi blues.[1]

Mai avremo potuto conoscere, per come lo conosciamo e per come la storia ha voluto che ci fosse tramandato, il patrimonio artistico costituito, tra le altre, dalle incisioni di Louis Armstrong, Duke Ellington, Charlie Parker, John Coltrane e Miles Davis, atteso che La solidarietà che si stabilisce fra il jazzman e chi lo ascolta, e l’influenza che questi può esercitare sulla creazione musicale in fieri sono facilitate dal frequente ricorso a schemi strofici e armonici familiari (le strofe e le armonie del blues, e quelle dei cosiddetti standards, temi sempreverdi particolarmente adatti all’improvvisazione jazzistica)…[2] 

E il Rock? Cosa sarebbe oggi il Rock se mai fosse apparsa su questa terra, non solo come fenomeno musicale ma anche sotto un profilo più specificamente culturale e poetico-letterario la musica del diavolo, una delle principali fonti di ispirazione di tutta la pop music? Viene da chiedersi quale sarebbe stato il percorso dell’America nera, con quale identità culturale sarebbe cresciuta e quali storie e poesie, in alternativa, avrebbe regalato al mondo; come avrebbe raccontato il proprio amore e il proprio orgoglio, come avrebbe lenito ed esorcizzato i propri momenti di dolore profondo e in che modo avrebbe reso meno duri i tanti attimi di disperata resistenza?

Molto significativamente LeRoi Jones ha scritto: La più significativa musica negra di qualsiasi periodo è l’esatto riflesso di ciò che il negro è in quello stesso periodo, riflette le sue convinzioni su se stesso, sull’America e sul mondo.3 Con il passare del tempo il blues è diventato patrimonio di tutti; costituisce, per la gente di colore ma non solo, una musica fortemente istintiva, connaturata com’è e assolutamente congeniale all’essere umano che desidera esprimersi in musica. Il blues costituisce una modalità espressiva che dispone della stessa immediatezza e naturalezza del linguaggio parlato.

Tutto questo, ma anche tante altre riflessioni, suggeriscono le immagini del film The soul of a man presentato in anteprima a Cannes nel 2003 e scritto e diretto da Wim Wenders, il regista tedesco che ha sempre profuso una passione e una sensibilità particolari nel rappresentare il mondo delle sette note, quello, soprattutto, della popoular music (suoi sono anche, tra gli altri, i lungometraggi Buena vista social club, documentario che ha fatto conoscere a livello planetario la musica afro cubana di Ibrahim Ferrer e Compay Segundo presentato al Festival di Berlino nel 1999, The million dollar hotel (Germania 2000), nato da una collaborazione con il cantante rock Bono, scritto e prodotto dallo stesso Bono, che ha anche composto e cantato le canzoni che fanno parte della colonna sonora e Palermo shooting (Italia-Germania, 2008) film cui partecipa Andreas Frege ‘Campino’, cantante del gruppo rock tedesco Die toten hosen arricchito da una accurata e interessante colonna sonora che comprende brani di De André, Rosa Balistreri, Calexico, Portishead, Beirut, Velvet Underground e Bonnie Prince Billy).

Il lungometraggio di Wenders è peraltro solo uno dei film che fanno parte del progetto complessivo sul Blues che Martin Scorsese ha portato a compimento in qualità di executive producer. L’intera serie comprende sette film scritti e diretti da altrettanti registi: Feel like going home (presentato in anteprima alla 60^ mostra del cinema di Venezia nel 2003), scritto da Peter Guralnick e diretto da Martin Scorsese, The Soul of a man (Germania 2003), scritto e diretto da Wim Wenders, The road to Memphis, scritto da Robert Gordon e diretto da Richard Pearce, incentrato sulla straordinaria carriera musicale di BB King, Warming by the Devil’s fire, con materiale d’archivio che vede come protagonisti personaggi mitici di questo genere musicale come Elizabeth Cotten, Reverend Gary Davis, Ida Cox, Willie Dixon, Lightnin’ Hopkins, Son House, Mississippi John Hurt, Vasti Jackson, Bessie Smith, Mamie Smith, Victoria Spivey , Sister Rosetta Tharpe, Dinah Washington, Muddy Waters e Sonny Boy Williamson, scritto e diretto da Charles Burnett.

E ancora fanno parte di quest’opera monumentale il film scritto e diretto da Marc Levin, Godfather and sons, lungometraggio sul blues di Chicago, Red, White & Blues, scritto e diretto da Mike Figgis, film sulla British invasion degli anni sessanta e, ultimo ma non ultimo, Piano Blues, scritto e diretto da Clint Eastwood. Sforzo cinematografico e documentario ciclopico, dunque, questo The Blues, attraverso il quale viene presentata una mole incredibile di materiali d’epoca di assoluto valore storico e culturale e nel cui ambito vengono fatti emergere gli aspetti più diversi e quelli più genuini che da sempre contraddistinguono il più diffuso, il più influente e più coinvolgente mezzo di espressione musicale dei neri d’America. Pensate alle immagini celebrative del pianoforte quale strumento che più compiutamente, forse, è in grado di riprodurre le note tipiche del blues nel film di Eastwood, oppure al giusto tributo offerto da Marc Levin alla Chess Records, una delle etichette storiche del Blues per la quale incisero eminenti personaggi del blues di Chicago come Muddy Waters, Howlin’ Wolf e Willie Dixon.

Il film di Wenders, già dalle prime immagini che introducono allo spettatore la figura mitica di Blind Willie Johnson, appare costruito con intento filologico e antropologico (il particolare effetto vintage delle sequenze riguardanti Blind Willie pare sia stato raggiunto da Wenders mediante l’utilizzo di strumenti cinematografici che risalgono addirittura agli anni venti). Si alternano alle straordinarie immagini storiche di Skip James e J.B. Lenoir una serie di riprese in cui alcuni artisti dei nostri giorni eseguono covers di classici del blues composti a partire dagli anni Venti-Trenta del secolo XX, dai tre cantanti e autori (personal heroes del regista Wenders) cui il film è dedicato. La lista delle performances è davvero nutrita; partecipano al film musicisti come Shemekia Copeland, Alvin Yougblood Hart, Garland Jeffreys, Chris Thomas King, Cassandra Wilson, Nick Cave, Eagle Eye Cherry, Vernon Reid, James Blood Ulmer, Bonnie Raitt, Marc Ribot, Jon Spencer Blues Explosion, Lucinda Williams e T-Bone Burnette.

Due mi paiono le sorprese di rilievo riservateci dal film. La prima, piacevolissima, riguarda la partecipazione al film del compianto e in versione inedita Lou Reed, amico personale del regista, che artisticamente parlando, almeno nei suoi dischi ufficiali, ha frequentato solo sporadicamente il genere musicale cui il film è dedicato. Lou Reed viene colto dalla cinepresa nel suo consueto stralunato modo di esibirsi ma a tratti, qui sta la sorpresa, sorridente e divertito. L’atteggiamento scanzonato del rocker newyorkese potrebbe essere dovuto alla necessità di mascherare un certo imbarazzo per il fatto di trovarsi nei panni del bluesman, situazione evidentemente non familiare per il newyorkese.

Peraltro questi blues cantilenanti e così scanzonatamente interpretati da Lou sono assolutamente convincenti sul piano, per così dire, della originalità stilistica. Su quest’episodio particolare del film Wenders alla domanda su quale sia stato il momento più bello o più divertente durante le riprese ha risposto: Il più divertente è stato quando abbiamo girato con Lou Reed. Sono molto fiero e mi ritengo particolarmente fortunato perché posso dire di aver ripreso Lou Reed che ride. Sono riuscito a coglierlo in una sorta di stato di beatitudine che probabilmente vive spesso ma che sicuramente non è mai stato filmato. Quindi sono molto felice di aver ripreso Lou Reed che sorride e vederlo in quella condizione è stato un autentico piacere. L’altra sorpresa, almeno per chi scrive, riguarda l’assenza nel cast del chitarrista americano Ry Cooder, grande interprete di blues, peraltro, con cui Wenders aveva condiviso negli ultimi anni Novanta la fortunatissima e artisticamente molto proficua avventura di Buena Vista Social Club.

Una pellicola densa di emozioni, quella di Wenders, accompagnata da una colonna sonora eccezionale resa preziosa dalla presenza di molti eccellenti protagonisti della musica dei nostri giorni. Chi si azzarderebbe a chiedere di più?

 

1 Cfr. Arrigo Polillo, Jazz, edizione aggiornata a cura di Franco Fayenz, Mondadori, Milano 2007, p.21.

2 Cfr. Arrigo Polillo, Jazz, cit., p.12.

3 Cfr. LeRoi Jones, Blues people – Negro music in white America, William Morrov & Co., New York 1963. Ed. Italiana: Il popolo del blues, Giulio Einaudi Editore, Torino 1966, cit. in Arrigo Polillo, Jazz, cit., p.15.

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