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Cina, la sanguinosa transizione prosegue

L’anno è iniziato in modo decisamente turbolento, per i mercati finanziari globali, con la Cina che ha messo in scena la riedizione dello psicodramma azionario della scorsa estate ma con qualche elemento di inquietudine in più, legato al deterioramento della sua congiuntura. Proviamo a spiegare perché questa instabilità non passerà tanto presto.

Dopo dati di manifattura e servizi ancora deludenti, il mercato azionario cinese è stato bersagliato da vendite, alimentate anche dai timori relativi alla scadenza del divieto di vendere azioni per i grandi azionisti, quelli con oltre il 5% di una società, in scadenza oggi e prorogato. Le autorità cinesi avevano pensato di introdurre degli “interruttori” (circuit breaker) anti volatilità, disponendo il blocco delle contrattazioni per 15 minuti al raggiungimento di un ribasso dell’indice del 5%, e la chiusura del mercato con indici in perdita del 7%. L’iniziativa pare essersi dimostrata controproducente, ed una sorta di elemento di “attrazione magnetica” per i venditori, motivo per cui da oggi è stato abbandonato, mantenendo in essere solo il limite del 10% di variazione di prezzo su singoli titoli.

Basterebbe osservare un paio di dati per comprendere la direzione predestinata del mercato azionario cinese, comunque. In primo luogo, i multipli: il rapporto prezzo-utile della borsa di Shenzen è oggi intorno a 45, sul 2016, ma con un rapporto tra pezzo e valore di libro (price-to-book) di poco più di 4. In tale indice, il settore manifatturiero pesa per circa il 62%. Più “tranquilli” i multipli della borsa di Shanghai, la maggiore del paese: siamo intorno a 17 con unprice-to-book di 1,85. In entrambi i casi, il consenso degli analisti è per una crescita piuttosto robusta degli utili. E qui casca l’asino. I mercati stanno prendendo coscienza che un paese in via di manifesto rallentamento, con un peso del debito in forte crescita in tutti i settori dell’economia forse non dovrebbe presentare multipli azionari così aggressivi. E quindi si vende, ma le vendite non trovano assorbimento, in un quadro di liquidità pessimo. La sintesi di questo concetto, in soldoni, è che -forse- le borse cinesi sono un filo costose rispetto a fondamentali e prospettive, e con un grado di leva finanziaria che inquieta. Ecco perché tentare di contrastare le vendite, magari utilizzando intermediari “patriottici” che comprano al fine di difendere le quotazioni, finisce solo con il rinviare la resa dei conti.

Quello che accade sul mercato azionario è la versione in scala “ridotta” di quello, ben più problematico per il mondo, che sta accadendo sul mercato dei cambi e sullo yuan. Se un paese sta rallentando, anche vistosamente, ciò significa che le prospettive di redditività dei suoi investimenti sono parimenti deteriorate. E quindi i capitali defluiscono da tale paese, sia quelli internazionali (il cosiddetto “denaro caldo”) sia quelli domestici, nei limiti in cui ciò è consentito a questi ultimi (ma tanto, una strada la si trova comunque, prima o poi). Le autorità cinesi possono solo tentare di pilotare “gentilmente” la tendenza al ribasso, per evitare shock interni ed internazionali. Per far ciò si interviene in acquisto sullo yuan, se occorre, per smorzare le pressioni ribassiste più forti. Ma questo determina l’utilizzo di riserve valutarie, che stanno scendendo a causa dei deflussi di capitale, oltre ad una stretta monetaria interna che va controbilanciata attraverso iniezioni di liquidità, riduzione dei tassi ufficiali d’interesse e del coefficiente di riserva obbligatoria, cioè di quanto le banche devono accantonare a fronte di prestiti erogati.

I mercati hanno fiutato l’odore del sangue, nel senso che comprendono che la Cina, con questa politica di deprezzamento graduale del cambio, sta perdendo copiosamente riserve, e continuano a scommettere sul deprezzamento, usando lo yuan offshore, quello quotato a Hong Kong e che non è soggetto ai controlli e limitazioni che imbrigliano (entro dati limiti) il cambio interno dello yuan, il cosiddetto onshore. Quando c’è uno squilibrio fondamentale rilevante ed i flussi di capitale sono liberi o relativamente liberi, i mercati non si fanno pregare: spingono e martellano sin quando l’obiettivo non è raggiunto. Ecco perché in queste ore serpeggia il timore che la Cina possa decidere di smettere di sanguinare riserve, decretando una svalutazione dello yuan una tantum e massiva, dell’ordine del 10-15%. Se ciò accadesse, sarebbe uno shock per tutta l’economia mondiale, con evidenti riflessi deflazionistici globali ma sarebbe un trauma anche per le aziende cinesi indebitate in dollari, che non sono poche. Ma del resto, se i fondamentali vanno in questa direzione, c’è poco da contrastare.

Le riserve valutarie cinesi, pur se ancora imponenti in senso assoluto, si trovano comunque in una vistosa tendenza alla riduzione e non sono completamente libere, cioè liberamente utilizzabili (una notizia che vi sconvolgerà: le riserve valutarie di un paese non sono mai completamente disponibili né perfettamente liquide): parte va al normale flusso di import, parte va al servizio del debito in valuta contratto da operatori domestici. Ecco perché un paese che ha ancora un surplus annuo di 600 miliardi di bilancia commerciale rischia di finire a gambe all’aria sui flussi valutari e sul cambio.

Morale: i problemi cinesi proseguono, l’andamento del mercato azionario è un diversivo, un sideshow, come direbbero gli anglosassoni. Il paese resta minato da squilibri molto severi, quali il modello economico in transizione da sovrainvestimento a consumi domestici, ed un indebitamento sempre più pesante, che tiene in piedi il sistema ma al prezzo di squilibri crescenti. Ripetiamo il concetto: la Cina continua a rappresentare la maggiore minaccia per l’economia mondiale. Il processo di transizione non sarà breve né indolore, per nessuno.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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