• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tribuna Libera > Chi è Emmanuele Macaluso, il divulgatore scientifico che corre in (...)

Chi è Emmanuele Macaluso, il divulgatore scientifico che corre in bici

Emmanuele Macaluso, classe 1977, è un atleta impegnato nel ciclismo (MTB – Cross Country).

Dal punto di vista professionale è un esperto di marketing, saggista e divulgatore scientifico che ha ottenuto importanti riconoscimenti nazionali e internazionali. (1)

Nella seconda metà degli anni ’90 ha vinto diversi titoli e meeting nel lancio del giavellotto, sotto le insegne della Sisport Fiat di Torino allenato dal primatista del mondo Carlo Lievore. A causa di un incidente stradale si ferma per quasi 10 anni. Rientra nel mondo dello sport e ritorna a vincere fino al suo ritiro definitivo nel 2009.

Alla fine del 2019 annuncia di voler rientrare ancora nello sport, questa volta nel mondo delle “ruote grasse” del ciclismo. La notizia ha avuto una notevole attenzione da parte della stampa generalista e di settore, con più di 100 articoli in poche settimane.

 

D. Emmanuele, perché hai deciso di tornare nel mondo dello sport?

Ho un’età nella quale sento il bisogno di capire quanto il mio corpo abbia ancora da raggiungere in termini di performance. In più, viviamo in una società dove lo stress per l’instabilità lavorativa mette a dura prova la nostra parte psiclogica e fisica. Ho voluto unire la necessità di fare sport con la volontà di scaricare in modo mirato le mie energie nervose. Ci tengo a dire, che non è un’operazione nostalgia. Quando mi sono ritirato nel 2009 dalla mia carriera nell’atletica leggera ho fatto i conti con me stesso e non ho rimpianti. Ho vinto molto, ma soprattutto sono tornato a vincere dopo 10 anni di stop forzato per delle fratture alle gambe e alle ginocchia a seguito di un incidente stradale. Quello che dovevo fare, in quella parte della mia vita, l’ho fatto.

Successivamente mi sono concentrato nella mia carriera professionale nell’ambito del marketing prima, e della comunicazione della scienza poi.

Lo sport mi ha insegnato a raggiungere gli obiettivi attraverso metodo e determinazione.

Adesso, a poco più di quarant’anni ho voglia di rimettermi in gioco e vedere cosa sono in grado di fare nelle categorie che mi competono. Ma soprattutto voglio vedere come reagisce il mio corpo.

 

D. Perché hai scelto il ciclismo e la MTB?

La bicicletta è sempre stato uno strumento di allenamento per me. Quando facevo atletica percorrevo molti chilometri su una bici da corsa. Sono sempre stato un appassionato. Dovendo scegliere uno sport per il mio rientro, la scelta del ciclismo è stata naturale.

Amo la natura e mi piace la velocità. Volevo una disciplina che unisse questi fattori. La mountain bike è perfetta. Al di là degli allenamenti, adoro andare in giro con i miei amici e raggiungere luoghi pedalando attraverso sentieri e vedendo l’Italia da prospettive inedite rispetto a quelle che si vedono dalle strade asfaltate.

 

D. Come ti alleni?

Ho iniziato da qualche mese, quindi il mio obiettivo iniziale è stato quello di fare “gamba” e “sella”. Per i non avvezzi ai termini ciclistici, vuol dire che ho dovuto percorrere molti chilometri per “far girare” le gambe e abituarle a questa nuova attività e contemporaneamente mi sono abituato a stare sulla sella. Non ti dico il male al sedere!

Oltre questo, mi alleno sempre su un percorso predefinito, con punti di riferimento fissi, che utilizzo per valutare i miglioramenti dal punto di vista fisico e tecnico.

Dovendo esercitarmi anche dal punto di vista tecnico, ho frequentato alcuni corsi di guida con degli istruttori federali e programmo degli allenamenti sui trail. Sono molto fortunato da questo punto di vista, perché a Torino abbiamo delle splendide colline con diversi percorsi.

Per concludere, la mia preparazione mette insieme parte atletica e tecnica. Oltre a questo, la cosa che sta richiamando molta attenzione e il mio rapporto peso-potenza. Sono alto 1,91 mt e la mia corporatura è imponente dopo anni di giavellotto. Sto perdendo peso in modo strutturato e contemporaneamente le mie gambe si stanno abituando a fare il loro lavoro. Ho la fortuna di avere un motore di grossa cilindrata, anche se il cambiamento principale, rispetto al passato, è il passaggio da una disciplina esplosiva ad una di resistenza. Per il prossimo futuro io e il mio staff riadatteremo i parametri di allenamento.

 

Come è cambiato lo sport dal tuo ritiro al tuo rientro?

Alcune cose sono cambiate molto. Altre avrebbero dovuto, ma non è successo.

Dal punto di vista del marketing e della comunicazione, nella mia prima parte di carriera, si vinceva per ottenere la visibilità sulla stampa. I social non avevano l’impatto di oggi, o almeno l’utente medio non gestiva i contenuti con la stessa convinzione di oggi. Gli influencer non esistevano e c’era una minore autoreferenzialità. Questo è un fenomeno che non è ancora del tutto chiaro agli sponsor e alle agenzie che si occupano di marketing dello sport. Al di là dei termini comunemente usati per darsi un tono, le dinamiche vengono messe in atto più da chi si occupa di spettacolo che di sport.

Ci sono degli “ambassador”, soprattutto nel mondo del ciclismo, che basano il consenso su fattori che non hanno nulla a che vedere con lo sport. Molti sono dei “poser”, cioè modelli/e che si fotografano vicino ad una bicicletta, ma nulla più. Viene speso denaro e inviato materiale in questa direzione, mentre atleti veri, con titoli in bacheca, si alzano per andare a lavorare in fabbrica o ufficio ogni giorno.

Non critico questo sistema, da uomo di comunicazione e marketing ne comprendo le dinamiche, ma ho difficoltà a comprendere perché non si sfrutta anche il capitale mediatico – e in termini di storytelling – di molti atleti veri. Ci sono storie straordinarie in giro!

Credo ci sia un problema di mentalità e visione da parte degli sponsor, delle agenzie di marketing sportivo e anche degli atleti.

Costruire un’immagine e conseguentemente un sistema integrato di marketing vincente, nonostante gli strumenti, oggi risulta difficile. Troppi pesci nello stagno, e nessuno sa in quale direzione andare. Gli stessi atleti conosciuti a livello nazionale, raggiungono i risultati economici non attraverso agenzie di marketing dello sport, ma più facilmente attraverso agenzie di spettacolo.

 

D. Cosa invece non è cambiato?

Viviamo in un Paese con una strana concezione dello sport. In Italia il calcio detiene quasi la totalità dell’attenzione da parte dei media. È una storia vecchia. Un problema culturale.

C’è da dire che anche gli atleti e il sistema che “sorregge” lo sport italiano è di vecchia concezione. Buona parte degli atleti italiani sono membri delle Forze Armate o militari. Molti giovani – apparentemente promettenti – entrano in quei corpi, trovano uno stipendio e poi si siedono, pensando che allenarsi sia un lavoro ad ore. Quando facevo atletica, condividevo il luogo di allenamento con alcuni atleti che facevano parte di gruppi sportivi militari. A parte un’incomprensibile “spocchia” non supportata da risultati, mi sembravano degli impiegatucci che si presentavano in ufficio. Molti di quei soggetti sono stati mantenuti per anni dallo Stato senza che il contribuente sia stato messo nelle condizioni di poterli ringraziare per qualche risultato importante. Entrare in certi gruppi sportivi, per la maggior parte di quegli atleti era - ed è - come entrare a lavorare alle poste o in ferrovia.

Questo sistema non competitivo nel mondo dello sport (e della competizione) non credo porti a nulla di buono, perché tende a farti “sedere”. Trasforma il risultato portando l’attenzione dalla performance allo stipendio sicuro.

Certo, ci sono degli atleti con le stellette che grazie al loro talento sono delle eccellenze assolute, ma la loro percentuale è veramente minoritaria. Migliaia di altri atleti rimangono sconosciuti, non vincenti, mantenuti. Credo che si debbano dare delle opportunità ai talenti, ma quando non dimostri di esserne all’altezza, dopo un ragionevole ciclo di preparazione di qualche anno, l’opportunità deve essere data ad altri.

Non solo. Questa visione assistenzialista dello sport, ha delle ricadute negative anche sotto altri punti di vista. Quei (pochi) atleti che decidono di non pesare sulla collettività, non si trovano in un ambiente culturale che facilita la ricerca di sponsor. Non sono abituati loro a cercarli e non sono abituate le aziende a comprendere i parametri vincenti e le potenzialità di marketing che una collaborazione potrebbe concretizzare. Senza contare che, e lo dico per esperienza personale, quando ti presenti in campo con dei tuoi sponsor personali, i primi a guardarti in modo diffidente, sono proprio “i ferrovieri” sconosciuti di cui sopra.

 

D. Ti aspettavi un’attenzione della stampa così importante prima del tuo annuncio?

Sapevo che avrei richiamato attenzione per la differenza tra la mia attività professionale e quella sportiva. Ma la risposta è stata obiettivamente più ampia rispetto a quella che avevo preventivato. Mi ha colpito soprattutto leggere articoli sulla stampa specializzata. 10 anni di assenza dal mondo dello sport è tantissimo. Appartengo ad un’altra era geologica. Comunque sono molto soddisfatto. Per il momento…

 

D. Come riesci a far coincidere il tuo lavoro di esperto di comunicazione scientifica con quello di atleta?

Questa è una domanda che mi viene fatta spesso. La comunicazione della scienza è il mio lavoro principale. Quando mi presento per le conferenze o gestisco i progetti di Cosmobserver, gli organizzatori e il pubblico spesso mi guarda con una certa diffidenza. Lo stereotipo mi vorrebbe un po’ più maturo, più nerd (senza offesa) e magari con un po’ di forfora in più dopo aver passato molto tempo in una polverosa biblioteca.

Tuttavia, come persona che ha a che fare con la scienza ogni giorno, abbattere pregiudizi e preconcetti fa parte del mio lavoro. Sono quello che sono. Uno che studia tanto e che ha la fortuna di avere una struttura fisica che mi permette di essere anche un atleta.

Essere un atleta che si occupa di scienza poi, ti assicuro, è qualcosa di molto più logico e razionale di quanto comunemente si possa pensare. Sapessi quanto è utile qualche nozione di fisica, quando ti lanci giù da una collina, su un sentiero sterrato largo 80 centimetri ai 60/70 all’ora!

 

D. Perché hai scelto EM314 come nome per il tuo progetto sportivo?

È abbastanza comune nel mondo dello sport creare un logo che possa aiutare il pubblico a ricordarti. Pensa a Valentino Rossi nel motociclismo (VR46), Tony Cairoli nel motocross (TC222) ecc.

EM314 è l’unione delle mie iniziali e del numero di gara che ho scelto. La scelta del numero 314 è frutto di un fatto personale, che al momento non vorrei divulgare.

 

D. So che non ami farlo, parliamo di te non dal punto personale. Quali sono le tue passioni e cosa fai nel tempo libero?

Sono una persona curiosa e questo mi porta ad avere molte passioni. Molte di queste si svolgono in casa. Entro quotidianamente in contatto con molte persone, quindi appena posso ricerco la solitudine.

La mia prima passione è la lettura. Leggo molti libri, soprattutto saggi e biografie.

Amo anche la musica. Negli ultimi anni ho iniziato a suonare la chitarra e ad approfondire le mie conoscenze nell’ambito della musica classica e dell’Opera. Suonare uno strumento ti aiuta ad ascoltare la musica in modo più approfondito. Esperienziale. Sono cresciuto ascoltando musica rock e blues, ora sono in un’altra fase, anche se ogni tanto il volume dello stereo si alza. 

Adoro le auto sportive. Fino a pochi anni fa ne avevo una, ma l’ho venduta per la disperazione. Si rompeva di continuo!

Ogni tanto mi ritaglio qualche nottata ad osservare il cielo con il mio telescopio e infine, appena posso, carico la sacca in auto e vado a giocare a golf.

 

D. Qual è il tuo rapporto con gli amici?

Ho molte conoscenze, ma poche amicizie. Ho avuto la fortuna di crescere insieme a molte donne, questo mi ha dato la possibilità di imparare a guardare il mondo da una prospettiva diversa dalla mia. Una grande ricchezza. Molte delle mie compagne di classe delle superiori sono come sorelle. Oltre a queste ho tre amici con i quali mi confronto e mi incontro sempre con grande gioia. Per me l’amicizia è una cosa sacra. Un grande dono. Con alcuni di loro collaboro anche professionalmente.

 

D. Quali sono i tuoi prossimi obiettivi per questo progetto.

Migliorare la mia preparazione atletica in vista del mio rientro. Il Covid-19 ha rallentato la mia preparazione e probabilmente avrà ripercussioni anche sulla data della mia prima gara, che potrebbe slittare addirittura al 2021. Il calendario sportivo del 2020 è stato azzerato e non si sa quando partirà.

Oltre al lato atletico, la mia volontà è quella di formalizzare accordi con qualche azienda per attivare sponsorizzazioni o partnership.

In tutto questo devo sciogliere ancora il nodo relativo alla squadra per la quale correrò. Nel ciclismo bisogna essere tesserati con una società sportiva per poter correre. Ho già un paio di opzioni tra cui scegliere. Vedremo nei prossimi mesi.

Infine, nelle prossime settimane, a seguito del ritorno alla normalità dopo l’emergenza Coronavirus, rimoduleremo il piano di marketing e comunicazione e la presenza del progetto sui social.

 

D. Terminiamo questa intervista come ai tempi della scuola: con un argomento a piacere. C’è qualcosa di cui vorresti parlare e che non abbiamo ancora raccontato?

Mi piacerebbe parlare di sicurezza stradale. Forsi pochi sanno che muore in media un ciclista ogni 30 ore sulle strade italiane. Da quando ho iniziato ad allenarmi, questo problema lo sto vivendo in prima persona e ti assicuro che la situazione è molto grave.

Non hai idea di cosa voglia dire pedalare per strada, a destra, ed essere superato ci continuo da auto che ti sfiorano, con conducenti perennemente impegnati a smanettare il cellulare. Ti senti indifeso e in balia degli altri. Soprattutto della loro disattenzione. Ogni giorno ci uccidono schiacciandoci come mosche. E non importa a nessuno.

Prima di uscire di casa per allenarmi guardo una foto su un mobile nell’ingresso, nella quale sono ritratto sorridente vicino alla mia bici. Mi domando quanto dolore procurerebbe quella foto se mi succedesse qualcosa. Ci penso spesso quando pedalo e ho paura. Cerco di rimanere sempre vigile, ma so che non dipende solo da me.

Per il momento, scegliendo il mio circuito di allenamento, cerco di stare lontano dalla strada il più possibile, ma nei punti in cui non posso, i chilometri scorrono più lenti.

So che esiste una campagna di informazione che si chiama “Io rispetto il ciclista” che sta facendo tanto per questa tematica. Nei mesi scorsi ho conosciuto anche Paola Gianotti, una donna straordinaria e instancabile, che dà tanta visibilità a questa campagna. Ma le strade continuano a essere insicure. A fare paura. C’è ancora molto da fare e abbiamo bisogno di regole e controlli da parte delle istituzioni. Vedremo come poter dare il nostro contributo a favore di questa causa.

 

Valentina Esposito

 

 

(1) Tra i quali laTarga d'Argento della Presidenza della Repubblica Italiana e l'Interstellars International Award

http://www.emacaluso.com/profile.htm

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità