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Che farà Al Qaeda?

La rapida ascesa dell’Isis ha messo in crisi anche Al Qaeda che è stata messa ai margini della scena. In questi tredici anni, Al Qaeda ha vissuto essenzialmente di rendita sul grande colpo mediatico dell’11 settembre: il più spettacolare attentato della storia, compiuto su territorio americano, ha dato al gruppo di Bin Laden una centralità che spingeva gran parte della galassia jhiadista ad agire fiancheggiandolo. Di fatto Al Qaeda ha agito da gruppo federatore dell’area. Ma, in realtà, dopo l’attentato dell’11 settembre non c’è alcuna prova di un suo intervento diretto nei successivi attentati: a Bali (12 ottobre 2002), Madrid-Atocha (11 marzo 2004), Londra (7 luglio 2005), Sharm ed Sheik (23 luglio 2005), Mumbai (26 novembre 2008) anche se, talvolta, ci sono state rivendicazioni del gruppo di Osama Bin Laden, in realtà hanno agito cellule autonome poco o affatto collegate ai qaedisti.

Per di più, dopo il 2008, gli attentati dell’organizzazione si sono prevalentemente verificati in paesi arabi (Algeria, Egitto, soprattutto Iraq) ma non hanno avuto alcuna particolare spettacolarità. Semmai ha contato la partecipazione dei qaedisti alle insorgenze di Afghanistan ed Iraq, dove, appunto, era sorto il ramo locale comandato da Al Zarqawi. Ma il colpo più duro è stato certamente la morte di Bin Laden, cui, nonostante le minacce, non ha fatto seguito alcuna azione di risposta al livello del colpo ricevuto e questo ha reso evidente a tutti l’insufficienza organizzativa del gruppo ridimensionandone molto il prestigio.

I conflitti locali che sono seguiti hanno visto Al Qaeda presente ma non centrale (come con Jabhat Al Nusra in Siria), o debolmente presente (come in Libia e Nigeria). Nel frattempo, sono emerse nuove organizzazioni del tutto autonome come Boko Haram in Nigeria o il movimento islamico dell’Uzbekistan, o che hanno preso il largo come gli stessi talebani in Afghanistan, ed Al Qaeda ha svolto sempre meno il suo ruolo federatore dell’area.

L’Isis, che già dal 2007 era andata via via distaccandosi da Al Zarqawi, ha via via adottato un diverso modello organizzativo, che si sta rivelando vincente. Oggi non c’è dubbio che i riflettori siano tutti per Al Baghdadi e non per Al Zawahiri che si è sentito in obbligo di fare una uscita propagandistica per non essere spazzato via dalla concorrenza.

E qui il discorso si sposta sul tema: che farà Al Qaeda? Perché sarebbe sciocco darla già per defunta: con ogni probabilità, conta ancora su parecchie centinaia di uomini (anche se l’età media del database sarà decisamente più alta degli inizi), ha gruppi organizzati ancora fedeli in Yemen, nel Maghreb ed in Siria), può sempre contare su risorse finanziarie non irrilevanti (anche se non c’è più Osama) e, probabilmente, ha conservato una rete di amici influenti nella finanza islamica o in eserciti come quello pakistano. Insomma, l’organizzazione ha ancora la forza necessaria per fare delle operazioni e tentare colpi di coda molto duri.

Dove? E’ poco probabile che Al Qaeda tenti qualcosa nello scenario iracheno-siriano oppure in Iran o Arabia Saudita: al di là della praticabilità dell’operazione, la scelta sarebbe quella o di scontrarsi apertamente con l’Isis ed in un momento di rapporti di forza sfavorevoli, oppure di fargli indirettamente un favore attaccando uno dei suoi nemici ed, in definitiva, di accomodarsi in un ruolo decisamente subalterno.

Dunque, diamo per scontato che Al Qaeda, seguendo le regole del conflitto asimmetrico, si allontani dal centro dello scontro e vada verso altri scenari.

Il primo segnale lo dà proprio Al Zawahiri che, nel suo messaggio in rete del 4 settembre scorso, ha fatto esplicito riferimento all’India, dove spuntano cellule quaediste. La scelta ha una sua palese logicità strategica: in questo modo Al Qaeda lascia l’Isis alle prese con iraniani, curdi, siriani, iracheni e forse americani ed europei, per andare in India dove la concorrenza dell’Isis è molto meno forte; peraltro in India ci sono 150 milioni di islamici in gran parte sunniti, da sempre in rapporti pessimi con gli Hindù. Ma, soprattutto, fra India e Pakistan c’è la linea di faglia più bollente del mondo e i qaedisti hanno sempre amici pakistani con tanta voglia di regolare una volta per tutte i conti con Nuova Delhi. È uno scenario ideale per un colpo spettacolare (l’unica cosa che potrebbe far risalire la china ai seguaci di Osama) con ripercussioni mediatiche mondiali. Un modo per rubare la scena all’Isis e cercare di riprendere il ruolo federatore svolto in passato.

Dunque, una pista plausibilissima. Ma non è detto che sia l’unica possibile e praticabile: anche perché si immagina che gli indiani stiano prendendo le loro debite precauzioni, tenendo anche conto dei segnali di riavvicinamento fra Nuova Delhi e Islamabad, dopo l’elezione di Narendra Modi. Anzi, estremizzando, si potrebbe pensare anche ad un depistaggio dal reale teatro in cui tenterà l’operazione di rilancio. Restando nell’area dei paesi islamici, lo scenario più favorevole potrebbe essere l’Indonesia, il paese islamico più popoloso, dove c’è uno stato di tensione legato anche a problemi di convivenza fra religioni e dove il governo sarebbe un obiettivo perfetto da colpire per destabilizzare il paese.

Condizioni meno favorevoli potrebbero offrire paesi come la Birmania o magari la Nigeria (a meno di una intesa, allo stato non prevedibile, con Boko Haram). Va presa in considerazione l’ipotesi di un attentato spettacolare in Occidente: un nuovo 11 settembre. Ovviamente al primo posto, in questo senso ci sarebbero gli Usa, ma anche Israele potrebbe offrire un bersaglio molto appetibile, ma sia Usa che Israele non sono scenari facili in cui operare (non a caso, dopo l’11 settembre Al Qaeda non ha più tentato nulla negli Usa ed in Israele non ci ha provato mai). Al terzo posto, in termini di risonanza mediatica, potrebbe esserci Roma: la capitale della cristianità, dove, peraltro, la rete di protezione è molto meno forte di quella che può esserci negli Usa o in Israele. E di questo occorre tenere debito conto.

In ogni caso, motivo di più per non lasciarsi distrarre dal caso ucraino perdendo di vista lo scenario del Medio Oriente e “dintorni” che, nonostante tutto, resta quello più caldo.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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