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Carcere di Pianosa, fu tortura. La testimonianza di un detenuto

Questo testo contenuto nel libro "Fuga dall'Assassino dei Sogni" di Carmelo Musumeci (prefazione di Erri De Luca). Il testo contiene un'appendice dove sono state raccolte alcune testimonianze su quello che è successo nei "Carceri speciali" delle isole di Pianosa e dell'Asinara agli inizi degli anni '90. 

Sottoposto a regime di tortura del 41 bis nell’isola di Pianosa dal 1992.

 Queste memorie hanno il compito di ricordare l’infamia accaduta, con il consenso dello Stato, in un paese ritenuto civile, ovvero il nostro, di informare le future generazioni e di impedire che quei fatti cadano nell’oblio come è avvenuto per le torture autorizzate dallo Stato contro le Brigate Rosse durante gli anni di piombo.

All’inizio di settembre 1992, mi trovavo nel carcere di Alessandria, vennero alle tre di notte molte guardie nella mia cella e mi svegliarono in modo brusco, mi ordinarono di vestirmi in tre minuti. Chiesi se dovevo essere trasferito, mi risposero solo che dovevo andare con loro, mi portarono al magazzino e, dopo quindici minuti, arrivò tutta la mia biancheria avvolta in un lenzuolo. Quello che stava avvenendo non suscitava in me rabbia, ero abituato a quelle prepotenze e non potevo ancora immaginare che stavo andando incontro ad una delle esperienze più traumatiche della mia vita.

Lasciammo il carcere e solo quando arrivammo al porto di Piombino capii che mi stavano portando all’isola di Pianosa. Ci imbarcammo sulla nave e nella stiva, dove erano le celle, c’erano altri due detenuti. Ognuno di noi aveva la propria scorta, in tutto una quindicina di carabinieri. Questa precisazione ha un motivo che da qui a breve capirete. Giunti a Pianosa ci rimisero gli schiavettoni e ci portarono in un piazzale dove parcheggiavano le auto e i camion. In quel momento non c’erano e al loro posto c’erano una sessantina di guardie. Ci fecero fermare e, uno per volta, ci fecero avanzare alla distanza di due metri da un brigadiere. Questi, rivolgendosi a me, gridò:

 “Lei come si chiama?”

 Risposi:

 “De Feo Antonio” ma lo stesso continuò gridando ancora più forte, gli risposi gridando     anch’io.

 “Mi chiamo sempre come di prima, De Feo Antonio.”

Il brigadiere chiese di togliermi gli schiavettoni e subito mi misero le manette, spostandomi di 5-6 metri. Tutti insieme i carabinieri delle tre scorte mi saltarono addosso. Si erano messi d’accordo durante il viaggio, mi riempirono di botte. Mai avrei immaginato che era solo l’inizio. Neanche avevano finito e iniziarono le guardie, che erano molto più numerose. Mi trovavo in balia di un’orda forsennata che colpiva come se stesse facendo un linciaggio, si colpivano anche tra loro. Sembrava che io fossi diventato il male assoluto tra i problemi dell’Italia. Dopo essersi sfogati in modo bestiale, mi caricarono, insieme agli altri due detenuti, su una jeep e ci portarono tutti alla sezione Agrippa. Il brigadiere disse alle guardie:

 “Prima gli altri due carcerati, e in ultimo De Feo”.

In un quarto d’ora perquisirono i due carcerati. Arrivò il mio turno, entrai in una stanza, c’erano un tavolo e una coperta a terra.

Mi dissero di spogliarmi. Come rimasi nudo, iniziarono di nuovo a bastonarmi. Mi ordinarono di fare le flessioni e mentre le facevo si divertivano a picchiarmi senza sosta. Dopo un quarto d’ora di questo trattamento, mi dissero di rivestirmi ma continuavano lo stesso a menarmi. Si fermarono solo un attimo per dirmi:

 “Qui comandiamo noi.”

Non c’era bisogno di dirlo, è sempre stato così. Mi fecero uscire dalla stanza, le guardie si erano messe a destra e a sinistra del corridoio, che dovevo attraversare per arrivare alla cella, mi arrivarono botte da tutte le parti, addirittura cercavano di trattenermi per meglio assestarmi i colpi, un massacro condito dalla ferocia bestiale non di uomini, ma di bestie che godevano nel fare quello che stavano facendo, il tempo mi sembrò interminabile. Arrivato alla cella, chiusero anche lo spioncino. In quell’attesa l’ansia faceva da padrona. Una voce onesta mi parlò:

 “De Feo, ascoltami bene. Contro di te hanno cattive intenzioni, perciò non rispondere a nessuno, altrimenti ti ammazzano”.

Questo me lo ripeté due volte. Era palese che quella onesta persona non faceva parte delle bestie che c’erano in quel luogo infame ed era contraria al sistema di torture che veniva applicato in modo feroce. Le bestie vantavano di poter fare tutto quello che volevano, dato che avevano carta bianca dal Ministero e dal Governo.

Il calvario del primo giorno non era ancora finito. Verso le sette di sera vennero di nuovo le guardie a dirmi che dovevo andare in infermeria per la visita medica. Dovetti di nuovo fare il corridoio del linciaggio e ancora mi massacrarono senza sosta. Ciò che faceva più male erano le mortificazioni verbali e i loro sorrisi soddisfatti. Arrivato tutto stravolto dalla dottoressa, questa, con lo sguardo sulla mia cartella medica personale, mi chiese:

 “Ha problemi?”

Gli risposi di no. Tranquillamente mi misurò la pressione, vedeva che ero stravolto e pieno di ematomi in faccia e in altre parti del corpo e fece finta di niente, poi disse:

“Bene, lei può andare.”

In quel momento capii che erano tutti d’accordo. Il comportamento della dottoressa era simile, se non peggiore, a quello dei dottori nazisti nei campi di concentramento o a quelli dei gulag sovietici.

La libertà della democrazia le avrebbe consentito di opporsi a quel sistema di torture, ma non lo fece. L’ansia e la paura mi assalirono nel pensare che avrei dovuto di nuovo percorrere il corridoio del linciaggio, ma non c’erano alternative, ero stanco del viaggio e di tutte quelle botte che avevo preso. Mi picchiarono con più foga. Col senno di poi ho compreso perché si accanirono in quel modo, perché non gli davo soddisfazione, perché non gridavo.

Una volta in cella, credevo che la giornata fosse finita, ma mi sbagliavo, le bestie non erano ancora sazie. Verso le nove e mezza ritornarono di nuovo, mi intimarono di andare con loro con un tono che non prometteva niente di buono, mi portarono nell’ufficio del comandante, che mi disse:

 “Qui comandiamo noi e gli agenti possono fare quello che vogliono perché sono la legge in tutto e per tutto.”

 Mi ingiuriarono dicendomi di tutto e, dopo che il capo si era sfogato per bene, mi portarono in sezione, però questa volta per arrivare alla sezione, al terzo blocco presso la cella n.3, che mi era stata assegnata, c’erano da percorrere oltre 50 metri e le guardie erano il doppio di prima. Ero sfinito, ma dovetti farmi forza. Fu peggiore di tutto quello che avevo dovuto subire fino a quel momento. Furono più bestiali di prima, mi fecero di tutto, botte, ingiurie, addirittura mi colpirono con le chiavi in testa, quelle che servono per aprire le celle.

Pensavo che mi avrebbero ammazzato, come mi aveva avvisato la voce onesta. Cercavo di arrivare alla cella, ma i colpi in testa mi avevano rintronato e le mie gambe venivano meno. Dopo un tempo interminabile arrivai davanti alla mia cella, la guardia adibita all’apertura della cella aprì lentamente, affinché i suoi colleghi potessero continuare a picchiarmi. Alla fine mi spinsero dentro come un sacco di patate e mi trovai vicino alla finestra, non mi girai fino a quando non sentii il rumore delle chiavi che chiudevano il blindato, guardandomi intorno vidi che c’erano altri due reclusi. Per quel giorno le barbarie erano finite, ma quello era solo l’inizio di un tempo interminabile di torture.

La mattina seguente, alzandomi dal letto capii dove mi trovavo. Mi sentivo la testa tutta indolenzita e pesante, ricordavo le botte che avevo preso la sera prima. Non riuscivo a capacitarmi di tanta crudeltà da parte di agenti in divisa che dovevano rispettare le regole e farle rispettare, mentre invece gareggiavano a chi era più determinato a essere un bravo esecutore, come le SS nei campi di concentramento, e se ne compiacevano. Passarono il latte. Credo che neanche la più fervida immaginazione possa arrivare a pensare qualcosa del genere: uno schifo impressionante, una pentola di rame senza manici, tutta nera, come quelle che si usavano sul fuoco a legna in campagna, era trascinata per terra con un pezzo di fune di circa mezzo metro. La guardia, con un branco di bestie al seguito, cantava e rideva divertendosi, ci dava una porzione minima, ma questo non era il problema maggiore, il problema era che ci sputavano dentro, ci buttavano detersivi, ci urinavano, e altre schifezze simili.

 A Natale del 1992 ci misero tutto l’impegno per prepararci un bel pranzo per le sante feste. Sia a Natale sia a Capodanno ci diedero un osso macchiato di sugo di pomodoro. La carne la mangiarono loro e le ossa le diedero a noi. Per fortuna c’era il pane e potemmo calmare i brontolii dello stomaco. Tutto il resto era uno schifo. La pasta per poterla mangiare dovevamo sciacquarla, dopo che le guardie erano andate via, e così mangiavamo pasta in bianco. Mangiare era una guerra di sopravvivenza.

Un altro problema era l’acqua da bere. Ce ne davano un litro al giorno. Dopo un anno ce ne concessero due litri e fecero qualche altro cambiamento, usavano il carrello per i pasti, almeno così l’igiene era garantita.

 Al mattino, quando andavamo in cortile per l’ora d’aria, dovevamo metterci faccia al muro con le mani appoggiate (come nei film americani) e i piedi divaricati. Da dietro si divertivano a dare calci nelle caviglie, il dolore era molto forte e difficoltoso stare in piedi quando poi ci facevano girare. Poi iniziava il controllo equino:

“Apra la bocca, alzi la lingua.” E non contenti, guardavano tra i capelli.

Alla fine ci lasciavano andare ed iniziava il percorso nel corridoio del linciaggio; l’impresa non era da poco, perché per arrivare al passeggio bisognava girare a sinistra e, per meglio divertirsi, buttavano a terra olio e detersivi, così scivolavamo facilmente e loro potevano picchiarci ancora di più. All’ingresso del passeggio immancabilmente c’era sempre un gruppo di guardie che ostruiva l’entrata di proposito, e giù botte da orbi con feroce crudeltà. Ricordo ancora i loro schiamazzi di reciproco compiacimento. Entrati nel cortile, le guardie sui muri di cinta gridavano: “Abbassare la testa” e poi parolacce e ingiurie che avrebbero mortificato anche le pietre; il cortile era a piano terra come le celle. Vedevamo i nostri materassi poggiati alle finestre e tutta la cella all’aria. Quando rientravamo, di nuovo la solita trafila.

Prima la perquisizione e poi il corridoio del linciaggio. Entravamo in cella, mettevamo in ordine quel poco che avevamo e rifacevamo i letti.

Il pomeriggio iniziava di nuovo tutto da capo. Perquisizione con calci, controllo equino, vada e giù bastonate fino al cortile. Al suo interno ricominciavano le guardie sui muri di cinta; insomma, tutte le bestie dovevano avere la loro razione di divertimento. Era obbligatorio andare nel cortile due volte al giorno, un’ora al mattino e un’ora al pomeriggio. Andavano in cella a dare le botte se qualcuno si rifiutava di uscire.

La solita trafila succedeva anche quando si andava dal dottore o da altre parti.

Questo inferno quotidiano durò per circa quattro mesi, poi iniziarono a filtrare le notizie all’esterno, nei tribunali e anche a Roma, perché, come sempre, tra i parlamentari c’erano avvocati che avevano clienti detenuti in quei luoghi, ma il terrore del fronte repressivo li bloccava. La più coraggiosa parlamentare fu l’on. Tiziana Maiolo che venne a Pianosa e andò all’Asinara e questo limitò la crudeltà delle bestie feroci. Il clima di paura e di tensione continuò comunque.

Ogni occasione era buona per picchiarci ed ingiuriarci. Il corridoio del linciaggio era stato solo limitato, ma il calvario continuò incessantemente per mesi e anni.

Solo la sera, con la chiusura del blindato, ci sentivamo più sicuri e, con la speranza che per quel giorno le botte fossero terminate, ci rilassavamo, anche se andavamo a dormire sempre con la paura e la tensione addosso. Molti di noi avevano gli incubi e, ad ogni rumore che si percepiva nella notte, saltavamo dai nostri letti. La paura delle botte aveva instillato in noi un profondo terrore.

Tutte le mattine, quando aprivano il blindato della nostra cella, iniziava la nostra via crucis, subivamo ogni forma di prepotenza e vessazione. Avevano elevato la tortura a sistema. Quando volevano divertirsi, spesse volte ubriachi, venivano davanti alle celle e gridavano: “Abbassate la televisione.”

La maggior parte dei carcerati non la accendeva per evitare il pretesto della voce alta e prendere legnate e rispondeva che era spenta, allora gli aguzzini prendevano anche questo come pretesto e, con la scusa che i detenuti avevano mentito, picchiavano lo stesso. Nella sezione non si sentiva volare una mosca, ma ugualmente creavano tensione affinché non avessimo un attimo di tranquillità. Anche la doccia settimanale era un calvario. Perquisizione con calci alle caviglie e la solita razione di cazzotti ai fianchi. Come ci vedevano insaponati ci urlavano di uscire fuori. Il loro divertimento era farci tornare in cella tutti insaponati, malvagità gratuità, erano sicuri dell’impunità che gli garantiva lo Stato.

 Una volta litigai con un detenuto e mi portarono alle celle d’isolamento, dove mi conciarono in modo tale da lasciarmi a terra svenuto con la testa rotta, dal mattino fino al pomeriggio, senza nessun soccorso. Quando rinvenni avevo la testa con i capelli intrisi di sangue indurito e una ferita di tre centimetri. Non fui visitato e neanche medicato. Rimasi così fino al giorno seguente, poi mi portarono un mezzo lenzuolo dell’amministrazione penitenziaria e con quello cercai di pulirmi alla meglio. Ero brutto da vedere, conciato male. Ci erano andati giù pesante, più del solito. Per questo motivo non mi diedero più botte e mi lasciarono chiuso nelle celle d’isolamento fino a quando non mi ripresi un po’, poi mi riportarono in sezione e iniziò di nuovo il quotidiano orrore di torture.

 Un giorno mentre stavo giocando alla lotta con un mio compagno di cella, vennero le guardie e ci portarono in infermeria, il dottore ci misurò la pressione e poi fummo portati alle celle d’isolamento, ognuno in una cella diversa. Iniziarono prima con il mio compagno e si spicciarono in pochi minuti. Poi vennero tutti da me, mi spogliarono nudo. Cercai di ripararmi alla meglio, ma alla fine non riuscii neanche in questo, perché, per farmi più male, a turno c’era chi mi teneva e chi mi picchiava. Non ricordo quanto durò, ma mi massacrarono. Rimasi tre giorni nudo nella cella d’isolamento, senza niente. Eravamo io e la cella. La mia fortuna fu che era estate. Dopo tre giorni mi diedero una coperta, così potei creare con questa un giaciglio a terra per dormire. Dopo altri tre giorni mi diedero la biancheria e mi portarono dal direttore, il quale non volle sentire ragioni, quello che scrivevano le guardie era vangelo. Al ritorno mi tolsero di nuovo la biancheria e mi lasciarono i box. Rimasi altri dieci giorni in isolamento e fui trattato peggio di un animale. Entrambi, io e il mio compagno, venimmo trasferiti in altra sezione.

 Potrei raccontare tanti altri episodi di giornaliere barbarie. Non basterebbe un libro per descrivere nei particolari quanto sia stato bravo lo Stato a creare degli aguzzini uguali alle SS dei campi tedeschi. Studiavano con dovizia come torturarci e farci soffrire il più possibile.

Nel film Sorvegliato speciale di Stallone si vede tutto il male delle istituzioni ma, paragonato al carcere di Pianosa e alla tortura del 41 bis, quella è un’oasi di pace.

Per questa infamia nessuno ha pagato. Anzi, tutti quelli che sono andati a fare gli aguzzini a Pianosa sono stati poi promossi e hanno ottenuto bonus economici di vario titolo, sia sullo stipendio e sia sulla pensione, ringraziando le procure che hanno occultato ogni denuncia, principalmente in Toscana, che era competente con il territorio.

Hanno insabbiato ogni cosa. Ancora oggi qualche politico prezzolato, per avere risonanza mediatica, dichiara che bisognerebbe riaprire Pianosa e l’Asinara, ma l’unica cosa che si potrebbe fare in questi luoghi è trasformarli in musei degli orrori come quello di via Tasso a Roma o di Auschwitz in Polonia.

Mi auguro che qualcuno degli aguzzini abbia un rigurgito di coscienza e faccia sapere al Paese quello che è successo in quei luoghi d’infamia.

 

Antonio De Feo, detenuto

 

 

 

 

 

 

 

 

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