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 Home page > Attualità > Società > Bottega sì, bottega no, la chiudo o la apro | La Terra dei Tristi

Bottega sì, bottega no, la chiudo o la apro | La Terra dei Tristi

Non vi è modo di ignorare, eludere, soffocare quella profonda sensazione di tristezza e disagio che si fa strada dentro quando cala il sipario, uno dopo l’altro, quel velo a lutto, quella cortina di ferro a tratti rugginosa a serrare la vetrina, una dopo l’altra, di uno spaccio nella tua città. 

Laddove era luogo, solo ieri, di scambio, di passaggio, di scorrimento, di animazione, è oggi nuda traccia di caduta, di sconfitta e di rovina, affacci spenti sulle arterie già principali, petti sfioriti su acque rancide (vedi Galleria Foto su Flickr). A lungo andare la vista corrompe e consuma anche il sorriso di quell’anima qui sensibile e ignara di un destino nell’assenza, langue, si trascina e poi muore, pure lei nell’indifferenza di un mondo intorno.

 

Riaffiorano da quel limbo le parole di Leuzzi nella sua esplorazione di una Terra dei Tristi, il Cilento, siamo a Sapri, in cui ci spiega che

“chi è triste nutre sentimenti di debolezza, ha poca tendenza a sperare e se la disillusione prevale sulla speranza il futuro impossibile si declina in un orizzonte di senso desertificato da ogni possibile attualizzazione di valori individuali e collettivi.”

 

A ciò si aggiunge che per quanto riguarda la spazialità

l’inter-esse di un Cilentano medio si sia sostanziato [da tempi immemorabili] in inter-corporeità ed interrelazioni necessariamente improntate a diffidenza e sospettosità legittimando così l’individualismo ed il settarismo e sottraendo una fiducia basica alle reali possibilità di aggregazione in prospettiva di occupazioni comunitarie e solidali, per cui l’altro da sé è a fianco, a lato, di fronte, oltre lo steccato, ad una distanza minima, intollerabile perché ci rende vulnerabili ed impotenti mentre da prove e conferme dell’invadenza del prossimo.”

 

Via scorrendo la sua esplorazione egli ci racconta ancora, a proposito della Comunità qui Cilentana, che essa

“risulta così essere frammentata e discontinua; il confronto con l’altro da sé nei termini di invidia, gelosia e sospetto intanto ha perpetuato in maniera autoreferenziale la cultura della separatezza e privilegiato l’individualismo del singolo cittadino ed il settarismo delle amministrazioni pubbliche. Manca a tutt’oggi così la pur minima attitudine antropologica individuale e collettiva ad agire ed investire risorse umane ed economiche in obiettivi di interesse collettivo e progetti di crescita e di sviluppo economico. Manca l’orgoglio del senso di appartenenza per attestarsi rispetto le altre realtà socio-culturali, prevale intanto l’inadeguatezza culturale e l’incapacità a fuoriuscire dall’isolamento, frenando intanto l’introduzione di strategie gestionali moderne ed efficaci nella conduzione delle Amministrazioni Pubbliche ed Aziendali. Le aspirazioni personali insistono su progetti a breve termine e di poco respiro, e si ispirano solo al bisogno primario di conseguire una semplice sopravvivenza; certamente non coincidono con le aspettative di cooperazione in un contesto di comunità. Il diffuso atteggiamento di rassegnazione e fatalismo a fronte del sottosviluppo economico e culturale è sintonico con l’accidia e sincronico con la mancanza di iniziativa individuale e collettiva che affliggono la società cilentana […] e secondo il Scassellati avrebbe selezionato un’attitudine socio-antropologica degli stessi Cilentani incline all’autocommiserazione ed all’abulia.”

 

Alla luce di un affresco sinora sì desolante è lecito domandarsi: che ci facciamo ancora qui? Viene voglia di fuggire, lontano, in cerca di un conforto, o forse della stessa vita. L’emigrazione, scelta storica, la più gettonata, è appannaggio di taluni, ingrossare le file dei profughi oltreconfine poco alettante e la Provvidenza da queste parti, extrema ratio, un incerto lusso, solo puro folclore. Resta l’altra fuga, assai diffusa e per nulla conveniente, alcol, droghe, gioco d’azzardo e le illusioni di mondi altri, panacea delle panacee, attività già commerciali tutte che anche qui, insieme a supermercati, farmacie e pompe funebri, non conoscono crisi o recessione.

 

Quand’anche la fuga, d’ogni sorta, non è contemplata, ciò che fai è restare, soffermarti, abitarvi (nell’accezione heideggeriana) appellandoti alla stessa vita che è scambio, comunicazione e passaggio spontaneo, perenne e incessante, per nutrirsi di cui abbisogna e sostenere la propria causa. Volgi lo sguardo da ciò che appare e continui la tua marcia, foss’anche all’ombra di un deserto, piana ruvida e aspra, per abbracciare ciò che è. La vita non è isolamento o sopravvivenza e l’Altro non è nemico né minaccia ma il riflesso della voglia dentro di essere uno nel rovescio e pari nella differenza. Che sia inutile la commiserazione di sé stesso lo testimonia anche un dizionario, già esso universo per ordine alfabetico a sentire il France, un mero piagnisteo che nemmeno il morto ascolta più.

 

La vita sfida sé stessa, non lancia dadi e mai guanti di circostanza, ma coglie il solo invito a svelare l’esistente anche quando è “solo niente”. Lo ha scoperto pure Miriam, giovane donna in Calabria insieme ai bachi suoi da seta, un arcano a lei dischiuso da quel tempo…

“dove non c’è niente, vuol dire che si può costruire tutto.”

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