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«Bisogna passare da una politica identitaria a una politica di solidarietà»

Pragna Patel, attivista britannica di origine indiana, è sempre stata una forte sostenitrice dei diritti delle donne e della laicità. In questa intervista di Emma Park per Freethinker, pubblicata sul numero 5/22 di Nessun Dogma, racconta la sua storia e discute dei problemi che le donne appartenenti a minoranze devono affrontare.

Pragna Patel è stata una forte sostenitrice dei diritti delle donne per oltre quattro decenni. Dal 2009 al 2022 è stata direttrice di Southall Black Sisters (Sbs), un’organizzazione antifondamentalista, antirazzista e femminista che si batte per le donne di colore e appartenenti a minoranze. Il primo ottobre 2022 terrà la Bradlaugh Lecture della National Secular Society sul tema Dissenso e resistenza in difesa dei diritti delle donne e del secolarismo.

Ho parlato con Pragna via Zoom, per saperne di più sulla sua storia, le sue motivazioni, le sue sfide personali, il suo atteggiamento nei confronti della religione e la natura mutevole dei problemi che le donne appartenenti a minoranze devono affrontare da quando ha iniziato a collaborare con la Sbs nei primi anni ottanta.

Cosa l’ha spinta a impegnarsi nella campagna per i diritti delle donne appartenenti alle minoranze?

Sono cresciuta in una famiglia indiana tradizionale in cui ci si aspettava che le donne si conformassero a rigidi ruoli di genere e a norme patriarcali: ci si aspettava che si sposassero, che il partner fosse scelto per loro, che rimanessero in casa a occuparsi dei figli e dei suoceri. Erano tutte strade tracciate per le donne che nessuno metteva in discussione. Ricordo tutte le donne intorno a me che seguivano questi percorsi senza fare domande. Mi sono sempre chiesta perché quella fosse l’unica strada aperta alle donne.

Nella mia famiglia, gli uomini parlavano di politica durante gli eventi, mentre le donne stavano in disparte a servire gli uomini. Ci si aspettava che io fossi in cucina a dare una mano, ma preferivo di gran lunga ascoltare i dibattiti politici, a volte molto accesi, che facevano gli uomini.

Queste cose mi hanno portato a chiedermi perché le donne fossero relegate in certi ruoli. Sentivo che era ingiusto, senza sapere bene perché, e anche che non volevo seguire quella strada. Non credo che in quel momento mi rendessi conto che stavo mettendo in discussione l’ordine patriarcale che mi circondava. Quando stavo crescendo, se mettevi in discussione lo status quo, anche in modo lieve, ti veniva detto: «Questa è la nostra religione e la nostra cultura, e le cose stanno così». La religione e la cultura sono sempre state utilizzate per spiegare la divisione tra uomini e donne. Il mio lavoro per i diritti delle donne è nato da quella sensazione viscerale che per le donne ci fosse qualcosa di più di questi ruoli tradizionali.

Mio padre è nato in Kenya e anch’io sono nata lì, ma la mia famiglia era di origine indiana. Mia madre è indiana e ci si aspettava che vivesse ovunque vivesse suo marito. Così si è trasferita in Kenya dopo il matrimonio. Siamo arrivati nel Regno Unito nel 1965, proprio quando molti paesi africani erano in preda al nazionalismo, ai movimenti indipendentisti e a una più ampia politica di africanizzazione. Questo lasciò molti asiatici che erano stati portati in Africa dagli inglesi in una posizione precaria. Mio padre decise che, prima che le cose peggiorassero in Kenya, avrebbe dovuto cercare una vita migliore per noi. Aveva un passaporto britannico, quindi è venuto qui come migrante economico.

Sono arrivata nel Regno Unito all’età di cinque anni, a dicembre. Ricordo ancora con chiarezza che scesi le scale dell’aereo e tutti mi guardavano – non sapevo perché. Ora mi rendo conto che le ragioni erano due. Uno: all’epoca non c’erano molti asiatici, quindi sicuramente saltavamo all’occhio. Secondo, non ero preparata al clima inglese: indossavo un vestito di cotone senza maniche.

I miei anni formativi sono stati segnati da esperienze di razzismo a scuola. Già alle elementari i bambini ci dicevano continuamente di andare a casa, di tornare da dove eravamo venuti. Era normale essere chiamati “Pakkies”, sentirsi dire che puzzavamo di curry o che eravamo maleodoranti. Le battute e gli insulti razzisti erano molto diffusi. Nessuno faceva niente a quei tempi, soprattutto perché il razzismo non era riconosciuto. Quando cominciai a frequentare la scuola secondaria, a partire dai 14 anni, il razzismo divenne molto più minaccioso. Anche nel parco giochi, gli insulti erano più feroci. I miei genitori hanno affrontato un razzismo molto peggiore: la discriminazione nel tentativo di ottenere un lavoro, una casa e così via.

Quindi ti sentivi sempre un estraneo. Penso anche che gli insegnanti non abbiano mai riconosciuto che, anche se eri diverso, la tua identità aveva la stessa importanza e lo stesso valore di qualsiasi identità inglese bianca, e che il tuo background era interessante quanto un background inglese bianco.

Cosa ha fatto quando ha lasciato la scuola?

Ho frequentato un istituto di istruzione superiore a Liverpool. Non ottenni voti brillanti alla maturità, anche perché in quel periodo vissi un’esperienza molto traumatica: fui quasi costretta a sposarmi, cosa che a quei tempi non era neppure vista in questa luce, e a cui mi ribellai. Tra i 16 e i 17 anni ci fu una guerra di logoramento tra me e i miei genitori. Loro non volevano farmi del male: pensavano che quella fosse la strada giusta e che io mi stessi solo ribellando. Ma quella lotta occupò un anno e molte delle mie energie e del mio tempo.

Comunque, ce la feci e riuscii a scappare il più lontano possibile, cioè a Liverpool. Studiai letteratura inglese e sociologia. Partecipando alla politica studentesca, iniziai a comprendere le mie esperienze formative di oppressione patriarcale, sessismo e razzismo. Tra la fine degli anni settante e l’inizio degli anni ottanta, quando frequentavo gli ultimi due anni delle superiori, avevo sentito parlare delle rivolte razziali che avevano portato alla morte di Blair Peach e all’arresto di centinaia di attivisti e membri della comunità che contestavano la presenza del Fronte Nazionale a Southall. Anche se non ero stata presente personalmente, questi eventi lasciarono un segno indelebile nella mia mente.

Così, quando ero all’università, sono stata coinvolta nell’attivismo studentesco, andando in luoghi come Manchester e partecipando a manifestazioni contro le espulsioni. Fare campagne con altri studenti asiatici e giovani uomini e donne mi ha aperto gli occhi, perché fino a quel momento non avevo capito che si poteva resistere. Ero cresciuta con la sensazione che, per quanto riguarda il razzismo, si trattasse di tollerarlo e di essere una vittima perenne, che ti piacesse o meno. Anche il movimento per i diritti civili in America fu una rivelazione per me.

Cosa ha fatto dopo l’università?

Durante le vacanze tornavo a Southall, dove viveva la mia famiglia. Vedevo un gruppo di giovani donne asiatiche, più o meno della mia età, che facevano parte di quelle mobilitazioni antirazziste del 1979, che vendevano riviste femministe nere sulla High Road di Southall e si facevano chiamare Southall Black Sisters. Ero motivata dalla loro posizione di femministe antirazziste. Così mi sono unita al gruppo. Quando ho finito l’università, ho capito che volevo tornare a Southall e lavorare per i diritti delle donne.

Le Sbs erano un misto di donne provenienti da molte minoranze. Alcune erano afro-caraibiche, altre asiatiche, altre ancora mediorientali. Adottarono il termine ‘nere’, come fecero molte attiviste asiatiche all’epoca, per indicare una lotta comune contro il razzismo, storie comuni di colonialismo e imperialismo e per riflettere una crescente coscienza femminista tra le donne nere. Era un periodo in cui l’attivismo antirazzista e femminista stava crescendo a dismisura. Gruppi di donne si stavano costituendo in tutto il paese.

Quando alla fine si è sposata, è stato un matrimonio combinato?

No, è stata assolutamente una scelta. Ho sposato una persona con cui stavo lavorando. Non avrei mai fatto un anno intero di disobbedienza civile per poi tornare a conformarmi alle regole.

Come è cambiato il suo lavoro e la natura delle sfide che ha affrontato nel corso della sua carriera?

Nel periodo in cui io entrai nella Sbs, tutti i membri fondatori se ne andarono. Rianimai il gruppo e poi creai il centro di advocacy a Ealing. Iniziai a rendermi conto che il problema che la maggior parte delle donne ci presentava era la violenza – abusi domestici o altre forme di violenza di genere come matrimoni forzati, omicidi e violenza basati sull’onore, suicidi causati da abusi domestici, uomini violenti che uccidono le donne.

A quei tempi la politica del multiculturalismo era appena diventata dominante nelle istituzioni statali. Ma il modo in cui lo interpretavano era fondamentalmente quello di lasciare che le comunità minoritarie risolvessero i propri affari internamente senza l’intervento dello stato, perché ritenevano che un intervento avrebbe significato essere insensibili alla cultura e ai valori religiosi, o addirittura essere razzisti. Noi bussavamo continuamente alla porta della polizia e dei servizi sociali dicendo: «Dovete intervenire – non si tratta di sensibilità culturale, ma di un rischio per la vita di donne e bambini».

Uno dei cambiamenti positivi da allora è che, grazie alle nostre campagne e al nostro rifiuto di indietreggiare di fronte al mancato intervento dello stato, siamo finalmente riuscite a imporre un cambiamento nel modo in cui le autorità affrontano questioni come l’abuso domestico o il matrimonio forzato. Li abbiamo costretti a rendersi conto che intervenire in questi casi non ha a che vedere col salvaguardare l’identità culturale bensì la vita delle donne e dei bambini, e a riconoscere che queste forme culturalmente specifiche di violenza di genere sono in realtà abusi dei diritti umani delle donne. Questo è un grande risultato.

Quindi le autorità sono ora più disposte a intervenire in questi casi?

Assolutamente sì. Ora abbiamo una guida legale sulla violenza basata sull’onore, sulle mutilazioni genitali femminili e su altre forme di violenza di genere.

Abbiamo fatto notevoli progressi anche nel modo in cui le autorità per l’immigrazione rispondono alle donne che subiscono abusi e che hanno uno status di immigrazione insicuro. Quella è una montagna ancora più grande da scalare, perché stiamo attraversando un periodo di politiche anti-immigrazione estreme.

Ci sono due aree che sono particolarmente impegnative in questo momento. Una è il neoliberismo e il ridimensionamento dello stato sociale, perché le donne, per ottenere i loro diritti, hanno bisogno dello stato sociale – abbiamo bisogno di accedere all’assistenza legale, agli avvocati, alla giustizia, alla protezione attraverso i tribunali. L’altro ambito è l’ascesa del fondamentalismo religioso.

Quanto è importante la laicità per la sua campagna elettorale?

All’inizio, negli anni ottanta, eravamo tutti laici. Non avevamo nemmeno bisogno di definirci laici. Era scontato perché le nostre organizzazioni si basavano su valori laici. Ad esempio, il termine ‘nero’ era un termine laico. Significava storie comuni di razzismo e resistenza al colonialismo e all’imperialismo. Permetteva di unire diversi gruppi di minoranza.

Oggi, purtroppo, la frammentazione delle identità nei gruppi di minoranza ha fatto sì che non ci si mobiliti più intorno a questo tipo di termini espansivi e inclusivi. Siamo diventati più campanilisti e ripiegati su noi stessi. Ci coalizziamo intorno alle identità di fede, diventando comunità sikh, musulmane o indù. Questo ha avuto un enorme impatto sulle mobilitazioni femministe all’interno delle comunità minoritarie. In passato, potevamo avere origini sikh, indù o musulmane e riunirci, riconoscendo le nostre esperienze comuni di donne. Ora questo tipo di frammentazione dell’identità si concentra molto di più sulle differenze. Anche se condividiamo lo stesso panorama culturale dell’Asia meridionale, la stessa lingua, lo stesso cibo e così via, i gruppi si moltiplicano ovunque, chiamandosi Gruppi di donne sikh, Aiuto alle donne sikh, Rete delle donne musulmane, Centro delle donne musulmane, Donne indù. Questo ha frammentato la nostra solidarietà e ha reso più difficile riunirsi e sostenersi.

Secondo lei perché hanno avuto luogo questa frammentazione e la crescente enfasi sulle divisioni religiose a scapito della cultura condivisa?

Ci sono diversi processi in gioco. Siamo in preda alla politica identitaria, che trovo incredibilmente regressiva. Negli anni ottanta abbiamo iniziato a chiamarci ‘neri’. In un certo senso, anche quella era una politica identitaria, ma era sempre investita da valori e da una politica molto più orientata verso l’esterno, più inclusiva e più incentrata sulla solidarietà. Il fine ultimo era quello di creare connessioni con altri gruppi che affrontavano altre forme di oppressione, ma che facevano parte della più ampia lotta per la giustizia sociale e l’uguaglianza.

Abbiamo perso questa base politica progressista. L’ascesa del fondamentalismo religioso non ha aiutato, perché ha plasmato il modo in cui le comunità si organizzano. Ha permesso ai leader religiosi di monopolizzare le risorse, di parlare a nome delle comunità e di pretendere di rappresentarle, sempre con un’agenda molto patriarcale per quanto riguarda le donne. Invece di vedere la politica identitaria come un trampolino di lancio per la solidarietà, ora la vediamo come un fine in sé. Le leadership fondamentaliste dominanti chiedono risorse a nome delle cosiddette comunità di fede e pretendono di parlare a loro nome, ma non agiscono nell’interesse delle donne, dei bambini o di altre minoranze oppresse all’interno delle minoranze.

La politica identitaria è una questione complessa perché dipende dalla prospettiva da cui la si guarda – sinistra, destra, religiosa, eccetera. Come si conciliano tutti questi aspetti?

Stiamo assistendo a un dogmatismo che si è diffuso da entrambe le parti. Penso che ci sia un problema serio con la sinistra, se non siamo in grado di criticare le identità di fede al nostro interno, o di criticare la religione o gli aspetti culturali che di fatto opprimono le minoranze sessuali o le donne. Sia la sinistra che la destra, a mio avviso, sono in preda a un autoritarismo spaventoso. Dobbiamo affermare che la nostra politica è una politica femminista laica, perché se ci etichettassimo come “comunità di fede” sorgerebbe spontaneo chiedersi di chi sia la fede, chi abbia il diritto di interpretarla e se questa fede serva gli interessi di coloro che sono impotenti all’interno delle comunità minoritarie.

Quelli di noi che si considerano di sinistra hanno assistito a una discesa nel dogmatismo e in una politica dell’identità che di fatto ci impedisce di sviluppare una politica di solidarietà. Negli anni ottanta, la nostra politica di resistenza era più speranzosa e inclusiva, perché si concentrava sulla solidarietà con altri gruppi oppressi.

Quando ho intervistato Maryam Namazie, che è comunista, ha detto che uno dei problemi della sinistra è che vuole il riconoscimento delle minoranze, ma questo la porta ad andare troppo oltre. Ha suggerito che i membri dell’estrema sinistra tendono ad andare a letto con gli islamisti fondamentalisti, perché si identificano con il loro obiettivo di rivoluzione. Ma l’islamismo politico, ha sostenuto, è in realtà fascista.

Sì. Il problema della sinistra è che vuole denunciare i fascisti all’esterno, ma non vuole denunciare i fascisti all’interno. Se vogliamo resistere alla politica autoritaria, dobbiamo resistere all’autoritarismo sia dall’alto che dal basso.

Dobbiamo evidenziare le tendenze fasciste nelle nostre comunità, che vengono scambiate per progressiste perché parlano vagamente di resistenza allo stato, di resistenza al fascismo bianco o al razzismo. Il fondamentalismo indù ha monopolizzato la cosiddetta “voce indù”, l’islamismo ha monopolizzato la cosiddetta “voce musulmana”, e così via. I fondamentalismi sikh, musulmano e indù condividono le stesse tattiche e la stessa agenda e si specchiano l’uno nell’altro, così come il fondamentalismo ebraico e quello cristiano su scala globale. Tutte queste forze fondamentaliste in realtà lavorano insieme, perché hanno nemici comuni e un’agenda comune.

Sul palcoscenico internazionale dei diritti umani, tutti questi fondamentalisti si uniscono per minare le garanzie e gli standard che si sono sviluppati intorno ai diritti riproduttivi delle donne e ad altri diritti. Vogliono avanzare riserve, se si tratta di regimi fondamentalisti, e vogliono diluire i diritti che le donne hanno conquistato con anni di lotte, come il diritto all’aborto, all’accesso alle informazioni sull’aborto, a dire no a un matrimonio forzato e così via. I fondamentalisti religiosi si rispecchiano l’uno nell’altro, anche se si dichiarano pubblicamente nemici.

Questo è un aspetto che noi della sinistra non riusciamo a riconoscere. Si tratta di movimenti politici che utilizzano la religione per fini politici, non di autentiche forze culturali o religiose. Hanno un’agenda illiberale e regressiva e un’agenda misogina quando si tratta di donne. Molte delle richieste che avanzano in nome del “rispetto della religione e della cultura” mirano a controllare le donne: a controllare i loro desideri, le loro menti e i loro corpi. Si pensi alle richieste di scuole o spazi pubblici separati per genere, o alla richiesta di leggi religiose come la sharia per regolare le relazioni familiari.

È difficile capire come tali richieste possano essere progressiste in un senso reale. Sono piuttosto una minaccia per le femministe nere, che da almeno tre decenni si battono affinché lo stato riconosca gli abusi contro le minoranze come violazioni dei diritti umani. Eppure sono pochissime le donne appartenenti a minoranze che parlano, perché sono state indotte a credere che parlare significhi in qualche modo dipingere le comunità minoritarie come barbare o arretrate, o dare più potere allo stato.

Dobbiamo sfidare il fascismo dei regimi, come quello ungherese o polacco, o quello degli Stati Uniti sotto Trump. Dobbiamo sfidare il tipo di sciovinismo e nazionalismo che è stato mascherato nei dibattiti sulla Brexit e il razzismo del sistema di immigrazione. Ma dobbiamo anche sfidare la politica illiberale e la cultura dell’autoritarismo all’interno della sinistra.

Lei ha lasciato la carica di direttrice della Sbs nel gennaio 2022. Quali sono i suoi progetti ora?

Mi sto ancora adattando alla vita al di fuori, ma nel frattempo sto lavorando con molti gruppi di donne su una serie di progetti, tra cui il Centre for Women’s Justice sulla questione dell’accesso alla giustizia. Sono anche attiva con Maryam Namazie in One Law for All e in Feminist Dissent, perché credo che la lotta contro il fondamentalismo religioso sia una delle principali questioni femministe del nostro tempo.

Ha qualche credo religioso?

No. I miei genitori sono di origine indù, ma loro stessi non erano particolarmente religiosi. Mi sono sempre opposta alla religione, perché l’ho trovata patriarcale e restrittiva nei confronti dei miei diritti di ragazza e di donna. L’ascesa del nazionalismo indù tra la diaspora indiana è uno sviluppo agghiacciante e un segnale d’allarme del fascismo che è già in mezzo a noi.

Ha qualche messaggio per i lettori di Freethinker su ciò che dovrebbe essere importante per noi come società, indipendentemente dalla nostra provenienza, e su come possiamo lavorare insieme per migliorare le cose per tutti noi?

Dobbiamo promuovere una cultura del bene pubblico e civico basata sui principi dei diritti umani. Dobbiamo salvaguardare la legge sui diritti umani e la relativa cultura dei diritti umani, perché è in pericolo in questo preciso momento. Dobbiamo farlo con gentilezza, attenzione ed empatia reciproca – abbiamo perso queste qualità. Dobbiamo passare dalla politica dell’identità a una politica della solidarietà.

Per gentile concessione di Freethinker. Articolo originariamente pubblicato in inglese.

Intervista di Emma Park

Traduzione a cura di Avilia Zavarella.

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Questo articolo è stato pubblicato qui

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