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Beirut senza mare

Rawche, anni '50

di Lorenzo Trombetta 

Ogni volta che me lo trovo davanti mi sorprende. Mi sorprende la sua presenza. Come se non fosse scontata. Perché è come se non ci fosse. Il mare è sì sullo sfondo, ma non c’è. Non se ne sente l’odore. Né la puzza o il profumo. La sera, lungo la Corniche, il vento comincia a spirare. Bisogna però andare fino alla Spiaggia Bianca per accorgersi che a Beirut c’è il mare. In città è una comparsa che fa capolino tra i palazzi, ormai protagonisti dell’orizzonte.

Altre città di mare hanno molto più mare in città. Qui è spesso inaccessibile. Una scaletta fetente, macchiata di piscio e Coca-Cola rafferma, ti porta da un gruppo di pescatori. Uno di loro sta pisciando sullo scoglio. E non è nemmeno troppo appartato.

Ci si allontana per vedere sullo sfondo il profilo di quel che un tempo era il caffè Hajj Dawud. Dietro si staglia il Sannine. A volte è innevato. Scattiamo una foto? “Il mare a Beirut, che bello!”. Mostreremo la foto. Ricorda quel film israeliano che parla di Sabra e Shatila… “guarda la Corniche com’era un tempo… i palazzi sono li stessi”. I palazzi, appunto. Ma il mare…? Dov’è?

Un altro pescatore si atteggia a stilita su un barile di olio per motori. Un altro su un barchino poco più in là agita la metà del suo corpo nell’acqua. A riva, un ristorante finto-popolare offre pipe d’acqua a chi vuole “prendere un po’ d’aria”. Ci sediamo vicino alle onde? Il mare scuro che si muove anche di notte e non sta fermo mai sembra disturbare la clientela. E le ballerine sguaiate e chiassose all’interno del locale.

La domenica tutti allo Sporting. “Lì c’è il mio pittore preferito…”. Ma dai? Anche tu allo Sporting? “Sì, lì incontro quel romanziere che ha vinto il premio negli Emirati… come si chiama?”. Lo Sporting costa caro. Ma per molti non ha prezzo distendere il proprio asciugamano su una colata di cemento. Ostia? Il paradiso!

Una piscina – forse un tempo era la vasca per i bambini – è colma di un liquido verde chiamato da alcuni “acqua lercia”. Le onde si divertono a disegnare cerchi di schiuma marrone e rossastra. Una birra locale – mi raccomando gelata! – per non guardare troppo lontano. Un aereo che si avvicina prima di sparire alle tue spalle. Tante chicchere e risate, musica nelle orecchie. E poco, pochissimo mare. Una scaletta arrugginita non invita più nessuno a sparire nel blu di una cartolina anni ’60.

E torna vivo il ricordo di Rawche. Non è Capri, va bene. Ma ha il suo fascino quella Polaroid che scatta foto-ricordo agli innamorati e a chiunque abbia cinquemila lire in tasca. Il tramonto sugli scogli è da non perdere. Il mare, lo confesso, l’ho dimenticato. Le coppiette che si appartano tra i canneti e le dune sotto il Moevenpick attraversano sacchetti di plastica e ciabatte nere dimenticate, scoppiate, di altre coppie in cerca di un attimo di libertà.

Ecco, la libertà. “Un tuffo e via?” No. Almeno se non sei un ragazzaccio di periferia o un sopravvissuto di Ayn al Mreisse, fare il bagno in libertà a Beirut è impossibile. Con mio figlio sfido la sorte saltellando sugli scogli di fronte al lungomare. Ma è solo uno sterile jihad per rivendicare un’appartenenza a un mondo altro. Dove scendere al mare è naturale. E non è appannaggio solo di bulli maleducati.

Prima o poi verrà certamente l’esotista di turno, il neofita europeo, il sapientino arabista che, dopo aver letto queste parole, vorrà insegnarmi che se ci si infila in quell’anfratto, si scende quella scaletta, si parla col signore che pesca sempre a quell’ora e si compra una caramella da quel mendicante in erba… allora si trova “il mare che cerchi. Anche a Beirut”.

 

No, il mare che cerco qui non c’è. Ma io ti amo ugualmente. Anzi, di più perché ti conosco. E so bene che tu il mare non me lo puoi proprio dare.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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