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Afghanistan, primavera di tristezza

Primavera di sangue in Afghanistan. Dopo la scuola del quartiere hazara Kabul due giorni fa, sei morti diciassette feriti, oggi giungono notizie di altri tre attentati. A Mazar-e Sharif, capoluogo della provincia di Balkh, dove le voci ancora precarie sono allarmanti.

Alle cinque vittime conteggiate in un primo momento se ne aggiungono altre, troppe. Si parla di trentuno cadaveri. Lo annuncia un dispaccio del distretto ospedaliero Ali Sina-e Balkhi che cita anche ottantuno feriti. Tutti quei corpi straziati pregavano nella moschea Seh Dokan. Bomba anche nella provincia di Kunduz, mancano informazioni dettagliate su persone e cose colpite. Una terza esplosione si è verificata ancora una volta nella capitale, fortunatamente senza uccidere nessuno, si contano due bambini feriti. E’ il disegno mortuario dell’Isis-Khorasan che prende corpo. Dopo aver orgogliosamente rivendicato le Ied seminatrici di morte a Dasht-e Barchi di martedì scorso le milizie afghane dello Stato Islamico si attribuiranno le odierne stragi, lanciando un duplice messaggio. In prima battuta alla travagliata popolazione cui dicono: abbiate timore, non sentitevi al sicuro con l’Emirato talebano, aderite al sogno del Califfato che non ha confini e non è affatto tramontato. L’altro avvertimento è ai miliziani al potere: possiamo colpire e destabilizzare la comunità che volete governare come e quando vogliamo. La sanguinaria linea di confronto fra i due schieramenti è vecchia di almeno un quinquennio, quando i taliban ortodossi attaccavano il governo fantoccio di Ghani e i dissidenti, che iniziarono a utilizzare la sigla del Khorasan, si contendevano a suon di esplosioni fette di territorio afghano. Tanto per dimostrare chi controllava e cosa, s’imponevano ai governatori ufficiali che ricoprivano cariche ma non gestivano alcun potere. I loro reparti dell’Afghan National Army erano attaccati in continuazione, per sbarcare il lunario e salvare la pelle dovevano restar chiusi nelle caserme, province e vie di comunicazione erano sotto la vigilanza dei nuclei talebani e in alcuni casi degli uomini del Khorasan. Nella corsa alla frantumazione del feticcio di uno Stato senza Stato la galassia talebana maggioritaria ha avuto la meglio, Akhundzada aveva aggregato anche il turbolento clan Haqqani e Mohammad Yacoob, il figlio del mullah Omar. Dopo la presa di Kabul ha fatto di più: ha assegnato a quest’ultimo il ministero della Difesa e quello dell’Interno a Sirajuddin Haqqani. Uomini di fuoco non solo ideologico, soggetti preparati sul campo e determinati. Eppure dallo scorso novembre la sicurezza per le strade delle città afghane è precaria. Nel Paese non c’è più guerra, ma neppure pace, il controllo del territorio che aveva angosciato i governi filoccidentali oggi diventa l’incubo dell’Emirato. Minato probabilmente dall’interno, dagli ex fratelli talebani che seguono una diversa via, se utopica come quella conosciuta fra Siria e Iraq è tutto da verificare. Certamente disgregatrice, sicuramente costellata di morte d'incolpevoli civili.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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