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Afghanistan, la pace di carta

Fra la pace stilata su carta e la pace reale, mister Khalilzad e mullah Baradar potrebbero trovare un ostacolo nell’attuale Afghanistan istituzionale che il primo perora, il secondo denigra. Certo già all’atto dell’accordo, sbandierato in pompa magna dal Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, alcuni elementi sottoscritti rappresentano un’incognita. 

I militari statunitensi che prenderanno il volo verso casa saranno inizialmente 3.500, i restanti 8.500 dovrebbero rientrare entro la fine di quest’anno. In più gli americani rinuncerebbero a cinque basi aeree, non dicono quali ma ne resterebbero pur sempre sei. Che fine faranno? I taliban dovrebbero riabbracciare fra pochi giorni i cinquemila combattenti rinchiusi nelle carceri gestite dal governo di Kabul, così è scritto nel patto. Ma il presidente Ghani domenica scorsa è intervenuto sulla questione, sostenendo che questo regalo non è realizzabile, al più dovrebbe esserci uno scambio coi prigionieri detenuti dai talebani nelle province, e non sono poche, che essi controllano militarmente e politicamente. E qui l’intoppo è già palese. Riuscirà Khalilzad a rimettere in riga il “burattino” recentemente proclamato presidente? Peraltro con percentuali di voto bassissime e la contestazione del numero due Abdullah Abdullah, che in un giro stavolta nient’affatto scontato come nel 2014, non vuole fare il vice di Ghani e ne contesta l’elezione, riparlando di brogli.

Ecco il clima dell’Afghanistan istituzionale a sette giorni dall’avvìo del cosiddetto ‘dialogo inter afghano’, che rappresenta il secondo passo della pace or ora firmata. Una pace inseguita per diciannove anni soprattutto dalla popolazione che ha pagato con la vita, con le menomazioni da ferite fisiche di guerra e le incancellabili ferite dell’anima, in un numero altissimo. Centomila - e il calcolo è pur sempre limitativo per oggettive ragioni di verifica sul terreno – è la quota di morti e feriti, d’una interminabile “missione di pace” (Enduring Freedom, Isaf Mission, Resolute Support) che non ha risolto nulla. Ha incentivato i flussi migratori, che da anni vedono giovani afghani di sesso maschile, e ora anche giovani donne, cercare rifugio in giro per il mondo. Gli stessi organismi internazionali contano a mille miliardi di euro la cifra che i contribuenti statunitensi hanno sborsato per questa follìa geostrategica, seppure indagini alternative parlano dell’esatto doppio. Ma soffermiamoci su alcuni dettagli irrisolti che potrebbero far naufragare l’accordo già in questa seconda fase. Al di là dei contrasti fra Ghani e Abdullah, comunque da non sottovalutare visto che quest’ultimo sostiene di voler formare una rappresentanza istituzionale parallela a quella del presidente designato, occorre capire i ruoli che la componente talebana occuperà nel prossimo governo. Per quello che sinora avevano affermato non vorranno vedere né Ghani né altri politici-fantoccio.

Comunque il leader della Shura di Haqqani, Sirajuddin, figlio del defunto Jalaluddin a lungo capo indiscusso di questo ramo intransigente, ha dichiarato al New York Times di “lavorare e rispettare sinceramente un nuovo sistema politico inclusivo”. C’è da immaginare che i talib ne faranno parte e qui occorrerà vedere quale formula e quale sostanza avrà un Paese finora definito Repubblica Islamica, che però i turbanti vorranno trasformare in Emirato Islamico, retto da regole religiose anziché da rappresentanze elette più o meno limpidamente. E non osiamo pensare a quali prospettive verranno offerte alla metà della popolazione, i sedici milioni di donne, di cui peraltro i diciotto mesi di colloqui di pace non si sono affatto occupati. In verità le donne afghane accanto alla guerra d’occupazione condotta dalla Nato e quella di contrasto incarnata dai miliziani islamisti, hanno continuato a subìre le violenze private del pashtunwali e le violenze delle Istituzioni dove i “democratici” Karzai e Ghani hanno inserito sanguinari signori della guerra senza offrire contrasto al fondamentalismo oscurantista e maschilista. Le risolute attiviste di Rawa l’hanno denunciato ovunque hanno potuto. Negli stessi organismi rappresentativi dove, fra mille minacce, continuano a rivendicare una vera libertà sociale e di genere. Quell’Afghanistan davvero indipendente e tutto da creare, che non passa per l’asse Washington-Doha-Kabul. 

 

 

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