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Afghanistan | Newroz di sangue a Kabul

Andare all’Università a Kabul è una cosa speciale, perché gli ostacoli sono tanti, se sei una ragazza, ovviamente di più. Può accaderti come a Saima che sognava d’iscriversi a medicina per via della passione, dell’ottimo profitto negli studi e all’ultimo anno, a diciassette e mezzo, è stata costretta a sposare un uomo col doppio dei suoi anni. Non solo studi interrotti, sogni infranti, ma costrizioni, torture, con una catena ai piedi. E’ una delle storie narrate con le lacrime agli occhi e i tonfi del cuore dalla protagonista che ora ha diciannove anni ed è fuggiasca. L’ha salvata dalla famiglia-prigione, dal marito-padrone, dal suocero-torturatore, dal padre-patrigno colluso la struttura dell’Hawca (Humanitarian Assistance Women and Children Afghanistan) che protegge le donne abusate. Andare all’università a Kabul, col cielo terso nel primo giorno di Newroz può essere pericoloso, come percorrere le attigue strade del centro. Stamane c’è stata l’ennesima esplosione lì e nei pressi del vicino Ali Abad Hospital. Si contano 26 morti. Per ora. Un attentato senza un perché se non quello di macchiare col sangue una quotidianità che pure esiste nelle ordinarie faccende della gente: povera spesa, piccoli affari, mercanzia da esporre, da acquistare, movimenti in bici o in moto in un traffico automobilistico comunque presente in assenza d’altra possibilità di movimento.

Certo, si possono evitare le sempre più bersagliate, nonostante la stretta vigilanza, arterie di comunicazione, arrampicandosi fra le colline che sovrastano la piana di Kabul, da dove i signori della guerra venerati come eroi (Massoud su tutti) venticinque anni fa martoriavano di bombe gli abitanti sottostanti. Ma nei defatiganti spostamenti per recarsi in centro, in certi luoghi diventati sempre più incerti, i rischi si corrono. Sempre. E’ una roulette russa, che detta così pare un gioco di parole della storia, mentre da 17 anni gli afghani conoscono un’altra occupazione, quella yenkee con gli europei a far da reggicoda. Ma a Kabul, quando ci sono, i militari Nato non presidiano le vie. Il compito di bersaglio fisso è passato da tempo all’Afghan National Army, esercito numeroso quanto inefficiente che in genere conta vittime senza riuscire a contrastare nulla. L’attentato di stamane non è rivendicato finora da nessuno. I talebani hanno preventivamente dichiarato alle agenzie di non entrarci nulla. Restano le galassie dell’Isis, ma finora silenzio. Quel che vogliono è chiaro da tempo: caotizzare il caos che l’occupazione occidentale ha fomentato e accresciuto e che, secondo attivisti democratici locali, ha le mani su questi stessi attennti, direttamente o indirettamente. Si opera per non dare un domani al Paese, per non far lavorare, studiare, vivere nessun afghano. Per sospendere il tempo e bloccare il futuro.

Enrico Campofreda, 21 marzo 2018

articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

 

 

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