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Ad Arcore, nel mezzo degli scontri

La ragazza prende la rincorsa. È furibonda e sconvolta. La terza carica delle forze dell’ordine, la più decisa, è appena terminata. Nell’aria c’è ancora una elettricità malata, di quelle che si propagano tra le persone quando scatta la violenza. Lei si getta nello spazio dove fino a pochi istanti prima c’erano manganellate e bottiglie di vetro lanciate contro gli scudi trasparenti e, quasi a colmarlo, urla: «Berlusconi, crepa!».

Forse è tutto in quell’urlo istintuale, in quella scarica di adrenalina fatta rabbia, il senso degli scontri avvenuti ieri ad Arcore, a pochi passi dalla villa dove il presidente del Consiglio ha intrattenuto capi di Stato e prostitute con la stessa proverbiale disinvoltura. In quel cortocircuito che identifica Silvio Berlusconi e i giovani in tenuta antisommossa, le sue colpe e le loro, sembrano nascondersi tutti gli altri. Quello che muove la mano del ragazzo che strappa lo specchietto retrovisore da una Clio grigia e lo lancia sui celerini. Quello che fa ritenere normali, consuete, le manganellate che hanno aperto un buco nel braccio di un giovane in tenuta mimetica e rasta. Quello che tiene duecento persone a pochi millimetri dallo sbarramento che le separa dalla propria nemesi. Per ore. Unendole quando non accade nulla. Spingendole quando sale il grido di battaglia. Moltiplicandone il coraggio o, se si vuole, l’incoscienza.

È il volto scuro del Giano bifronte andato in scena poco prima. Perché se le danze, i canti, le speranze sono appese a un filo viola intessuto d’insulti, non si riesce a stupire della violenza. Non che ci sia un legame diretto tra la manifestazione, pacifica, a tratti perfino gioiosa e divertita del Popolo viola e la furia insensata di chi siede nel mezzo di un incrocio per impedire il passaggio delle vetture di ignari concittadini, aggredendoli, minacciandoli se dovessero scattare delle fotografie. Non c’è nessun rapporto di causa ed effetto tra lo striscione che dice a Berlusconi «se non vuoi dimetterti, sparati» e la bottiglia di vetro scagliata a tutta forza contro un’auto che chiede solamente di seguire la propria strada.

Eppure chi era ieri nella piazza di Arcore ha potuto respirare la stessa frustrazione, nella piazza e negli scontri, nei balli e nelle botte. Una frustrazione sorda, che ha un unico nome ma molte radici. Il nome, naturalmente, è quello di Silvio Berlusconi. Il mafioso, il puttaniere, la merda, il ladro, il corrotto, il pedofilo. Le radici, al contrario, sono quelle che ciascuno dei manifestanti si porta dentro. E che portano alcuni a sfogare la propria indignazione con un simbolico lancio di mutandine e altri con la forza.

C’è stato un momento, nel pomeriggio, verso le 16, in cui si è respirata l’attesa che qualcosa d’altro accadesse. E la certezza che sarebbe accaduto. È stato quando alcuni gruppetti si sono diretti verso le due imboccature che conducono alla villa del presidente. Già allora si era capito che ciò che stava andando in scena sul palco non aveva più significato. Piano piano la noia si è tramutata in eccitazione. I cori si sono fatti più aggressivi, le distanze tra le persone meno pronunciate. Tanto che gli organizzatori hanno cercato ripetutamente, senza successo, di ricordare che nessun corteo era stato autorizzato, che la manifestazione non avrebbe dovuto degenerare per nessun motivo, che chi avesse mosso un dito contro le forze dell’ordine avrebbe vanificato il lavoro dei tanti che si sono spesi per un pomeriggio di dissenso, e non di violenza.

Ma non c’è stato niente da fare. La rottura si è consumata poco più tardi, nel luogo che sarà teatro degli scontri. Un membro dei gruppi locali del Popolo Viola impugna un megafono, urla con convinzione cercando di persuadere chi vuole il corteo che si tratta di una pessima idea. Un uomo corpulento, tuttavia, gli si fa vicino. Lo guarda dritto negli occhi e gli dice: «Protestare è un mio diritto, lo sancisce l’articolo 21 della Costituzione. E tu chi sei per dirmi come devo protestare?». L’organizzatore cerca di spiegargli che i diritti costituzionali con la violazione del domicilio del presidente del Consiglio c’entrano poco, ma non c’è niente da fare: la folla sta con l’altra parte. Vuole forzare la mano. Lo farà, di lì a qualche minuto.

E allora viene da chiedersi cosa ci sia dietro questa volontà di interpretare la libertà come un bene talmente assoluto da ritorcersi nel suo contrario. Senza generalizzare: perché nove persone su dieci erano venute a chiedere le dimissioni di Berlusconi, bere qualche birra, incontrare gli amici e fare onore alla splendida giornata di sole. Eppure quell’uno restante, a un certo punto, sembrava parlare per tutti e dieci. E anche durante gli scontri, terribili per chi come me non li aveva mai vissuti in prima persona, da pochi metri di distanza, si respirava una unità d’intenti inaspettata. Che ha portato alcuni a provocare le forze dell’ordine e altri a sorridere delle provocazioni. Come se tutti si fosse in attesa di un evento rivelatore, di una redenzione di massa che portasse, di colpo, la giustizia non tanto nel Paese quanto nella mente e nel corpo di ogni manifestante.

Forse è questo macigno d’insensatezza che ci ha tenuti per lunghissimi minuti fermi nella speranza, folle, che qualcosa accadesse, fosse anche il più brutale degli scontri. Che ci ha permesso di giustificare in anticipo quello che sarebbe accaduto. E che magari ha portato le manganellate oltre il consentito, generando reazioni spropositate, altrettanto folli. Chissà. Quel che è certo è che l’insensatezza genera insensatezza, e che della giornata di ieri non resterà che l’ennesima prova di questo banalissimo teorema.

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