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A chi interessa eliminare Di Matteo?

Se potessimo realmente riuscire a dare una risposta a questa domanda, che di fatto si pose Salvatore Borsellino quasi tre anni fa, saremmo più tranquilli e avremmo dato una risposta all’annosa questione sui rapporti tra mafia e Stato.

Ma le cose non stanno come le vediamo, perché nella storia delle aggressioni cruente contro i magistrati più impegnati nella lotta contro la mafia, la cronaca ci fa vedere la realtà solo attraverso un certo filtro o, meglio, una certa ricostruzione capace di accontentare l’opinione pubblica. Per questo servono le scenografie. Le rappresentazioni che vediamo ricalcano pezzi di modelli che piano piano qualcuno tira fuori, e noi, da buoni spettatori, partecipando a ciò che si svolge sul palcoscenico, condanniamo, ci auguriamo che il pericolo non si concretizzi, o attendiamo che il modello si incarni e trovi una sua reale manifestazione. Ma in questo caso siamo complici o materialmente e culturalmente stiamo da un’altra parte. Con tutte le potenzialità di mafiosità e di criminalità che ne derivano.

Il modello ha preso le sue forme da quello che ha detto al suo misterioso compagno di “ora d’aria” nel carcere di Opera, “Totò u Curtu”: tornare ai tempi delle stragi e far saltare in aria un tipo come Antonino Di Matteo. Si ripeterebbe quindi il cliché di cui ha parlato con precisione Salvatore Borsellino: dalla condanna generale dei responsabili ai rituali del caso, magari con il raddoppio dei simboli dell’intervento dello Stato, e la predicazione di nuovi impegni di colpire i colpevoli, da parte delle autorità.

È vero, Riina finora ha dimostrato che lui è il “capo dei capi”, che detta legge e ordini dalla galera, che la mafia è più forte di prima e riesce a trattare con lo Stato. Ma non ci pare proprio che il linguaggio, spesso allegorico, usato dal capomafia nella sua conversazione con il boss della Sacra Corona Unita Lorusso sia di per sé una minaccia capace di definire operativamente e concludere l’attentato al pm Di Matteo. Tant’è che questo magistrato non è il solo a dovere richiedere, nella visione criminale dei veri mandanti del delitto, un progetto legato alla sua attività, al suo normale lavoro, allo svolgersi consueto o meno – comunque normale – della sua giornata. Obiettivo reale sono tutti i magistrati protagonisti del processo sulla trattativa “Stato-mafia”, dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi ai sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Per non parlare poi del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato.

Magistrati che lavorano da tempo sui rapporti tra Stato e mafia. Ed è proprio questa antica convivenza che si vuole tutelare. I soggetti, dunque sono tanto interni alla mafia, quanto interni allo Stato. Per la mafia sarà abbastanza facile individuare – quando non si dichiarano essi stessi protagonisti – i capi e i sottocapi. Per lo Stato si tratta di individui, autorità, colletti bianchi, rappresentanti istituzionali che hanno in comune una grande caratteristica: la congiura del silenzio, la sintonia complice tra palazzi.

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