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Wall of dolls. Un inutile muro di bambole

La violenza contro le donne è un “prodotto” di grande successo sui banconi del pinkmarket, fa vendere e si vende benissimo, aiuta aziende in crisi e, perché no, anche cantanti trash in cerca di una rinata notorietà. Jo Squillo, oggi presentatrice di rubriche di moda, negli anni ’80 cantante di hit del calibro di “siamo donne oltre le gambe c’è di più” e “violentami sul metrò”, ha ideato una iniziativa contro i femminicidi che si è svolta il 21 giugno a Milano.

Wall of Dolls – un muro di bambole contro la violenza sulle donne - è una installazione che consiste in bambole attaccate al muro di Via De Amicis 2 a Milano. Bambole come simboli delle donne uccise e abusate in tutto il mondo.

L’iniziativa apriva la settimana delle sfilate di moda maschile e ha visto la partecipazione di 50 famosi marchi del fashion made in Italy, che hanno realizzato delle bambole ad hoc da attaccare al muro, artiste, scrittrici e anche associazioni e Onlus tra cui: Intervita, La lobby europea delle donne, DonneInQuota.

Tra i brand presenti anche la #NientePaura, l’azienda promotrice del “capitalismo benevolo” che per soli 25 euro ti vende un braccialetto contro la violenza sulle donne (qui tutte le adesioni).

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I quotidiani online, 27esima oraCorriere.itFattoQuotidianoVanityFair.it, parlano dell’iniziativa in termini positivi, come premessa gli ultimi efferati femminicidi, gli uomini che uccidono “in preda a chissà quale demonio” – scrive la giornalista del Fatto – la necessità di iniziative come quelle promosse da Jo Squillo, per innalzare la consapevolezza. Così dicono.

La maggiorparte dei quotidiani online nel parlare di Wall of Dolls riporta questa frase:

Wall of dolls che vede protagoniste le bambole, proprio loro che hanno accompagnato la nostra infanzia, simbolo di quella femminilità troppo spesso violata.

Quindi quando una donna viene uccisa, massacrata, violentata, abusata a subire un danno sarebbe la sua “femminilità”? Il problema non sarebbe la violenza , ma la perdita di “femminilità”?
Oppure il termine “femminilità” è andato a identificarsi con quello di donna?

Queste le parole con cui Jo Squillo presenta l’evento da lei ideato:

Se l’arte e la bellezza salveranno il mondo, penso che essere donna rimane la nostra arte migliore. Cura, comprensione, armonia e consapevolezza, le nostre armi contro tutta questa brutalità.

A questo punto non stupisce che siano state scelte le bambole. Quelle bambole dai corpi perfetti da vestire e invidiare, quelle bambole da nutrire e cullare, quelle bambole che hanno costruito quella “femminilità” di cui si parla spacciandola per un dato biologico, connaturato alle bambine e quindi alle donne, ma che è in realtà solo frutto di spereotipi, condizionamenti, ripetizione performativa di comportamenti e azioni, che hanno piano piano plasmato la “donna comprensiva, accogliente e materna”.

E’ una bambina vestita da adulta la bambola creata da Alberta Ferretti. Il colore acceso dell’abito “rappresenta la femminilità che deve essere esaltata ma senza mai essere motivo di violenza.”

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Chiara Boni veste una sinuosa e bionda Barbie. Ottima la scelta della famosa bambola dalle forme irrealistiche che sottopone da anni le bambine di tutto il mondo a confronti dai quali usciranno inevitabilmente sconfitte e molto spesso distrutte nell’autostima. Una lettura decisamente ristretta del concetto di violenza.

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“La pazienza e la saggezza di una nonna, la dolcezza di una mamma in dolce attesa, l’abnegazione e il senso pratico di una donna lavoratrice, la cura e la dedizione per casa e famiglia di una casalinga, l’amore per le cose belle e il desiderio di piacere di una fashion victim, l’eccentricità e l’indipendenza di una ribelle”.


La mamma dolce, la casalinga che si annulla per gli altri, la fashion victim che vuole piacere, sempre agli altri. Sono questi i modelli di donna rappresentati nelle bambole dalla fattura artigianale di Mantù. Estetica inquietante per un messaggio anacronistico e violento.

 

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I braccialetti contro la violenza, il muro di bambole, in fondo altro non sono che piccoli stereotipi femminili.
Le aziende di intimo che chiedono di denunciare il bastardo per vendere perizomi. Quelle di materassi che ti dicono di scegliere un buon prodotto, come quando hai scelto di essere omosessuale. E poi le testimonial con la lacrima nera super glamour e la corona da principessa che chiedono “stop alla violenza”. Queste aziende, pubblicità, iniziative hanno qualcosa di sostanziale in comune.

La questione di genere troppo spesso è svincolata da qualsiasi ragionamento socio-economico, ma ridotta a semplice argomento di costume culturale e quindi possibilmente condivisibile da chi sia semplicemente contrario alla violenza sulle donne. Siano queste le amanti più sincere del neoliberismo o delle anarchiche senza partito. Niente di più falso e manipolatorio.

Per quanto l’avversione alla violenza sulle donne sia un punto cruciale e una via di facile aggregazione, la “questione” è ben più articolata della retorica rosa che la accompagna. E se non c’è un progetto economico a cui guardare per l’emancipazione reale delle donne fuori dal sistema capitalista, smettendo semplicemente di cavalcarne le contraddizioni, difficilmente fare muri di bambole, flashmob o indossare braccialetti risolverà le nostre vite.

Aiuterà i profitti di quelle aziende che, al pari di qualsiasi altro trend, hanno identificato nelle questioni legate al mondo femminile ed omosessuale dei temi contemporaneamente progressisti e ancora un poco scandalistici ed usano questo insieme di etica e shock per vendere di tutto.

Tante tematiche di genere sono diventate (per fortuna) di più ampia diffusione e (purtroppo) quasi “di costume”, relegate a fenomeno di moda e quindi allontanate dalla politica e dalla sua progettualità. Lo stesso è successo per le tematiche legate al corpo e alle sue imperfezioni rispetto al modello estetico dominante, affrontate spesso dal femminismo contemporaneo con vari esiti. Così oggi abbondano le campagne pubblicitarie che si ergono portavoce della “bellezza autentica”, vale a dire di quell’uso di photoshop che si limita a lucidare e rendere attraenti corpi anche sopra la taglia 40. Le industrie della bellezza in primis hanno deciso di combattere apparentemente lo status quo, mantenendolo in realtà intatto.

Nella società aumenta la consapevolezza delle donne sul mito della bellezza artificiale, così come dell’opinione pubblica sugli aspetti più facilmente comunicabili della questione di genere (dall’antisessismo all’antiomofobia) e questi temi passano ad essere protagonisti anche di campagna pubblicitarie, iniziative contro la violenza sulle donne, perpetrando però magari altri stereotipi come quello della donna comprensiva ed accogliente proposto da Jo Squillo nel lancio del muro di bambole.

Tutto è rosa, tutto è mercato. Ma come può cessare la violenza sulle donne se rimaniamo nello stesso sistema patriarcale che la alimenta?

Se le vittime di violenza sono principessine tradite. Se chi subisce violenza è sempre e solo un occhio nero.

Siamo tutte bambole attaccate a un muro, la mamma, la lavoratrice, la bella, la bambina.

 

Enrica e Laura

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