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#fatevedereletette: il senso virale della comunicazione contro il cancro al seno. Pinkwashing e controsensi

Su twitter si diffonde una campagna per la prevenzione del tumore al seno, ideata da Giusi Brega, giornalista pubblicista. Si chiama #fatevedereletette e le donne per solidarizzare e sensibilizzare sono chiamate, appunto, a mostrare il seno, possibilmente con la scritta “prevenzione” in bella vista sopra.

tumore al seno

E’ un’esortazione un po’ insolente, ma premurosa: non vergognatevi di farle vedere al vostro medico.

Tempo fa girava per la rete girava un video per la prevenzione del tumore ai testicoli. Diceva: se gli uomini amano tanto mostrare i genitali in webcam, perché dovrebbero vergognarsi di farli vedere al medico? A sostegno di quella campagna, che mirava allo stesso meccanismo comunicativo, non è seguita una carrellata di foto di attributi maschili col l’hashtag #mostratelepalle, per il seno invece Twitter si è riempito di decollté formosi e sodi che urlano solidarietà con la “prevenzione”. Come mai?

Cito l’intervento di Alberta Ferrari su L’Espresso

Nella narrazione sociale del tumore al seno ricorre da 30 anni, con insistenza quasi evocasse un potere magico, la parola PREVENZIONE, ripetuta con tecniche da lavaggio del cervello senza possibilità interrogarsi troppo sul significato reale. Ha avuto un indubbio ruolo storico positivo e funziona ancora a meraviglia perché agisce a mo’ di eroico scudo contro il tumore, permettendo alla donna di svolgere un ruolo più attivo anziché subire passivamente gli eventi.

Da qui nascono le eroine della prevenzione a oltranza. Ottobre rosa, gadget rosa, corse rosa, reggiseni lanciati sotto la torre Eiffel. Tutto ciò dà l’impressione di un grande impegno sociale e io stessa ho partecipato ad alcune iniziative benefiche e di sensibilizzazione. Ma.

L’esibizione non deve essere fine a se stessa e l’estremizzazione acritica del concetto non deve arrivare a fenomeni discutibili anche nei confronti della dignità della donna.

Non basta invocare l’abracadabra della parola prevenzione: si cade nel folklore fine a se stesso, se non in vere e proprie strumentalizzazioni. Un esempio virtuoso (a mio parere): la recente mobilitazione delle parrucche rosa. E’ nata con una finalità ben precisa e concreta: la richiesta di provvedere con urgenza alla diffusione di breast unit in tutta Italia, coinvolgendo i decisori Istituzionali.

Ecco, prima di tutto, chiediamoci a cosa mira questa campagna? Qual è il risultato finale che vuole raggiungere? Non sta chiedendo breast unit, non sta denunciando un disservizio, sta cercando di sensibilizzare, di ricordare alle donne di farsi visitare. Il modo in cui pretende di farlo è invitando le donne a inviare un selfie del loro seno. E così ecco la gallery di foto di tette senza testa e corpo, di quell’oggetto di corpo femminile a cui siamo abituate fin dalla più trita pubblicità.

velluto-21

Di nuovo, cito Ferretti, perchè nel suo pezzo già c’è quanto va detto in merito: 

Fin qui mancanza di sensibilità, originalità e una buona fede almeno opinabile perché nell’insieme appare più una tecnica di marketing e autopromozione utilizzando una grave patologia femminile, tenendo conto che chi ha lanciato la campagna non è una donna con tumore al seno né se ne occupa a livello professionale (sul sito ho letto solo di medicina estetica e odontoiatrica). [...]

Come donna trovo offensivo che un’iniziativa di sensibilizzazione sul tumore al seno utilizzi stereotipi da “drive in”, in cui il un pezzo anatomico sbirciato del corpo femminile funziona da attrazione senza infrangere alcun vero tabù. Ennesima arma di distrazione di massa, altro che sensibilizzare.

Sull’obbietivo divulgazione virale funziona eh, certo che funziona. Si sa che certe cose tirano più di un carro di buoi.

La lotta al tumore al seno non avrebbe forse bisogno di mezzi più intelligenti di comunicazione, abbandonando magari quelli che mutuano linguaggi da pubblicitario medio? Così, rispondendo alla domanda che ci siamo poste all’inizio, provocatoriamente, su come mai non ci sono stati testicoli che si siano prestati alla sensibilizzaizione da hashtag mentre siamo piene di tette, il fattore determinante è sempre legato alle rappresentazioni mediatiche.

Mettere le proprie tette sane e sode al servizio di una causa solidale è un buon alibi per avere quella rappresentazione che ci consacra a modello vincente. Inoltre, come si sente una donna che ha avuto un tumore al seno, una donna a cui magari è stata asportata una tetta, forse entrambe, davanti a una carrellata di donne procaci che le dicono che le loro mammelle le sono solidali?

E’ come farsi ritrarre incinta e felici per sensibilizzare alla prevenzione del tumore all’utero.

Il cancro al seno ha un suo mercato e quindi anche una sua comunicazione “pubblicitaria”.
I fiocchi e fiocchetti rosa ci indicano che persino il Mocio Vileda può combattere il tumore al seno e le immagini scelte per parlare di questa malattia non sono altro spesso che la solita femminilità artefatta e sessualizzata. Mi riferisco ad esempio alla campagna di LILT del 2012, di cui abbiamo parlato a suo tempo. O della campagna cilena dell’agenzia pubblicitaria Lowe Porta che ha prodotto uno spot anticancro rivolgendosi direttamente agli uomini e chiedendo loro di invitare le proprie compagne a sottoporsi almeno una volta all’anno ad una visita specialistica per controllare il proprio seno e combattere il cancro alle mammelle.

Il video (che potete vedere QUI) era stato fortemente criticato per aver usato immagini quasi “pornografiche” nel tentativo di sensibilizzare le donne e i loro compagni alla famigerata prevenzione.
Ad una serie di seni prosperosi e rimbalzanti, l’agenzia faceva seguire un appello particolare: “Se le amiamo tanto (le tette, ndr), prendiamocene cura. Incoraggiate le vostre donne a sottoporsi a una mammografia”.

A suo tempo, in un post in merito ci chiedevamo: 

Come può un messaggio di prevenzione del tumore al seno, essere rivolto agli uomini e non alle donne ?
A quanto pare è più importante il diritto di un uomo a trastullarsi con le tette della partner piuttosto che la salute della donna. I seni in questione, infatti, sono tutti prosperosi, alcuni anche artefatti, e palesemente sessualizzati.

La campagna #fatevedereletette è rivolta alle donne, non agli uomini, ma usa le stesse immagini del video cileno. Sono tette senza persona al seguito, pezzi di donne che, avendo ormai introiettato lo sguardo maschile non si rendono più conto di proporre gli stessi modelli, le stesse immagini.
E di nuovo, verrebbe da chiedersi, come può un’immagine così sessualizzata aiutare la causa della prevenzione al seno? E’ un linguaggio pubblicitario comune, ma che effetto fa ad una donna che ha perso una parte del suo corpo vedersele sbattere in faccia con in una categoria di Youporn?

Servono altri modelli, per un altro genere di comunicazione. Anche quando lo scopo dice di essere nobile. Chiediamoci quale sia l’obiettivo da raggiungere e diffondiamo immagini differenti. Come quelle di donne, bellissime e forti, che un seno l’hanno perso e loro sì, hanno il coraggio di far comunque vedere le tette.

Ecco quindi The Scar Project, un progetto fotografico di David Jay che ha scattato fotografie a più di 100 donne che hanno sofferto di cancro al seno, che avevamo diffuso in tema di rappresentazioni differenti, disabilità e tabù:

Il messaggio più profondo, afferma l’artista, è un messaggio generale che parla dell’umanità, intesa come realtà dell’essere umano: accettare ciò che la vita ci offre, tutta la bellezza e la sofferenza, in una società che nasconde il cancro al seno dietro ad un piccolo fiocco rosa. Perché questi corpi non esprimono solo sofferenza.

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