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Traffici e povertà; 180 euro per comprare una ragazzina

Risorse dissipate dal malgoverno, in Nepal come in altri paesi poveri del mondo, impediscono di ridurre povertà e disperazione. Le conseguenze sono che i più fragili non sono protetti, anzi diventano merce di scambio per sopravvivere o speculare.

A proposito dell’ultimo post sulla povertà, sta per uscire (ottobre) uno studio dell’Oxford Poverty and Human Dev. Initiative che ha utilizzato il cosidetto Multidimensional Poverty Index (MPI). Si cerca di individuare la povertà di un paese in base a una serie di criteri (scolarità, salute, acqua, proprietà, etc.) invece che a una semplice divisione del PIL. I risultati collocano il Nepal 82° su 104° paesi valutati. Sri Lanka, Pakistan (in questi giorni nel pieno della sfiga), Bangladesh, India stanno meglio dei nepalesi. In alcuni settori (istruzione, e sanità) il Nepal ha performance migliori di qualche altro paese asiatico ma l’incidenza di povertà (Nepal’s Incidence of Poverty) raggiunge il 64,7%. Come scritto una situazione in costante peggioramento malgrado la migrazione (che riduce i bisognosi) e le rimesse (che aiutano marginalmente i restanti).

La crisi politica (pluriennale) non aiuta e non sembra in fase di risoluzione. I partiti si dividono al loro interno: una parte dei deputati dei partiti separatisti Madeshi ha votato il leader maoista Prachanda, che, a sua, volta, è stato sfiduciato da una parte del suo partito. Tutto rimane sospeso fino al 6 agosto senza tante speranza di soluzione. Il Nepal rimarrà ancora senza governo o, come si profila nelle ultime ore, con una re-edizione del governo precedente UML e Congresso. Intanto i maoisti, non a torto, si lamentano delle “foreign intervention in the formation of the new governmen” cioè degli emissari indiani, ambasciatori occidentali che, fra una partita di golf e l’altra, suggeriscono soluzioni. C’è poco da dire un governo senza i maosti ributterebbe il paese nel caos, tant’è che sia la National Army sia il People Liberation Army (maoisti) hanno annunciato nuovi reclutamenti, fatto che minerebbe il processo di pace.

Mentre a Kathmandu si discute e si mercanteggia, il monsone ha spazzato via un campo (tende) di lavoratori impegnati nella costruzione della Sipring Hydroelectricity Project nella montagnosa Dolakha (10 morti). Povera gente che lavorava per poche rupie al giorno, come i migranti nepalesi recuperati affamati in Mexico o le domestiche licenziate negli Emirati che affollano le ambasciate. Povertà che non si riesce a ridurre nei paesi marginali malgrado ingenti somme donate, schiere di esperti, decenni di progetti. Il Nepal aggiunge a tutto questo, come altri paesi poveri, un governo incapace di governare, forse anche a causa (suggeriscono molti economisti) di questi soldi mal gestiti.

Ho letto, prima di passare ai romanzi da spiaggia più adatti al periodo, il libro Venduta (Patricia McCormick, Salani Editore) la storia di Lakshmi, ceduta dalla famiglia, speranzosa di lavorare come domestica in una città (miraggio mai visto), di tornare al villaggio con qualche soldo per la madre e i fratelli e rivenduta in un bordello di Bombay. Storia triste e vera. Fortunatamente, a lieto fine, la ragazza è stata salvata da una delle tante organizzazioni che si occupano del problema, in questo caso veramente. C’è una norma che prevede fra 10 e 15 anni di carcere per traffico d’esseri umani ma i guadagni e l’impunità favoriscono il traffico. Mille, duemila rupie date alla famiglia (cento, duecento euro), 20, 30 mila rupie pagate al mediatore dalla tenutaria del bordello, 50.000, 60.000 euro il guadagno annuo stimato per una ragazza. Per restituire qualche centinaio di euro, pagare affitto, cibo, vestiti, etc, la ragazza è costretta a prostituirsi per anni. Si calcola che siano fra circa 180.000 le ragazze finite nei bordelli di Calcutta, Siliguri, Kanpuir, Gorakhpur, Lucknow, New Delhi and Bombay, di cui il 20% sotto i 16 anni. Gli acquisti di esseri umani si sono è allargati agli stati nord-orientali del’India dove i controlli delle autorità sono più deboli e la povertà più alta.

Nessuno sa, in realtà, i trend di questo traffico. Ci sono centinaia di report, progetti, interventi sulla carta come scriveva uno studio di Terre des Hommes (TDH- Nepal) After almost two decades of seminars, research and workshops it is still not known, how many girls are trafficked, where they go and who is responsible. Possiamo immaginare (e purtroppo nel piccolo constatare) che l’aumento della disgregazione sociale nei villaggi, della povertà e le frontiere bucate con l’India abbiano prodotto un aumento sensibile del traffico di bambine e donne. Sempre più spesso si legge sui giornali: Police held two women traffickers including five women from Jogbani check point of Nepal-India border line. Similarly, police held the victims — Nisha Nepali-14, Samjhana BK, 17, Dhaneswori Ram, 21 including two others — of Rupnagar of Saptari district while they were being taken to India. O la polizia ha liberato some school students aged between 11 and 13 years and women above 25 years from Salyan and Banke districts. E queste sono, fortunatamente, “storie di successi”.

Più di dieci anni orsono, un vecchio amico da sempre in Nepal, l’americano John Frederick in “Fallen Angels” raccontava, un po’ fuori dal coro, il fenomeno della prostituzione minorile. Da allora (e anche prima) libri, rapporti, documentari, progetti sono stati centinaia. John non è un scrittore\ricercatore\cooperante turista, conosce il Nepal come le sue tasche e vive fra la gente (è sposato con una donna nepalese). Già allora scriveva “much of the current discourse is, in fact, myth. The consensus view, he contends, is that a majority of women trafficked to India, are abducted and sold into sexual slavery as prostitutes mainly in the brothels of Bombay. This sort of trafficking could be call “hard trafficking.” The reality, he suggests, that much of Nepal’s girl trafficking is actually done with the families’ own complicity. He terms this form of trafficking “soft trafficking” and in most cases of girl trafficking, the families’ own agency is involved. Many more women actually go of their own free will; or at least with their families’ firm encouragement and blessing. Like everyone else, governments like the prevalent trafficking myths because they can be sold easily.

Anche qui storie di povertà e di disperazione. Un raccolto andato a male, il padre migrante che non spedisce i soldi, un alcolizzato in famiglia, qualche veleità di consumismo, il tetto della casa che crolla, o è spazzata via dal monsone. Nessuno li aiuta, e l’unica risorsa per sopravviveve è la vendita dei figli. Uscire dagli schemi triti e ritriti (qui come altrove, penso alla Cambogia), capire la disperazione e l’estrema povertà che determina scelte forse permetterebbe di contrastare in maniera più efficace il fenomeno del “child trafficking”, magari non specando risorse, come ha segnalato Elena in un passato commento.

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