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"Romanzo di una Strage" di Marco Tullio Giordana

Il passato non è una terra straniera, è una terra guasta e da bottino, desolata e assaltata. In Italia. Dove non fa tempo a uscire Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, su Piazza Fontana, che già guardiamo avanti a Diaz - Don't Clean Up This Blood di Daniele Vicari. E se neanche per l'evento ricordato nell'ultimo titolo, ben limitato nel tempo e nelle "conseguenze dirette", si è formata oggi una "memoria condivisa", come pretendere, o solo sperare, si formi per "gli Anni Settanta" (che come tutti sanno si aprono appunto a Milano il 12 Dicembre 1969 con la strage alla Banca Nazionale dell'Agricoltura e si chiudono a Torino con la marcia dei quarantamila il 14 Ottobre 1980)?

Ennesima minima conferma sono i commenti dei lettori (iscritti al sito) del CorriereCalabresi e il film su Piazza Fontana «Sparita la campagna contro papà», dove Aldo Cazzullo intervista Mario Calabresi e Gemma Capra dopo la visione del film. Lettori che, sia ben chiaro, non hanno visto la pellicola, ma per ricostruire in tre righe secondo il proprio uzzolo "gli Anni Settanta" ogni testo è un pretesto e ogni occasione è buona, tanto un film che esce quanto un portone che crolla (il "caso Azzollini" di nuovo coperto dal Corriere; qui uno dei tanti pezzi).

 

 

Questa è un'umile recensione cinematografica che col cappello (in mano) iniziale ha sì chiamato dentro la Storia, ma con l'intenzione di tenersi al possibile lontana dal dibattito (para)storico e (para)politico (non ci riuscirà). E' invece utile storicizzare il genere molto italiano di "cinema politico e civile", guardando al percorso dello stesso Giordana. Il regista inizia a trattare de "gli Anni Settanta" già nel 1980-1 con i suoi due primi film, Maledetti vi amerò e La caduta degli angeli ribelli, oggi obbligatori in apertura di ogni rassegna sul terrorismo insieme a La tragedia di un uomo ridicolo di Bertolucci e Colpire al cuore di Amelio.

Alla terza prova, nel 1984, dirige per la tv forse la sua opera migliore, Notti e nebbie, ambientato a Milano sul finire della Repubblica di Salò, epoca poi ripresa in Sanguepazzo. Mentre "gli Anni Settanta" ritornano in Pasolini, delitto italiano e I cento passi, oltre a essere fondamentale capitolo de La meglio gioventù. Giordana è considerato un regista rumorosamente civile, erede della tradizione di Rosi e ancor più di Petri (per citare due poli d'attrazione), che in Romanzo di una strage si vuole però sobriamente classico.

Un'ampia parte del cinema civile italiano capitalizza su: a) il meccanismo dell'inchiesta e dello smascheramento, infine sempre bloccati prima di giungere alla Verità Ultima e riuscire a fermare il Burattinaio; b) la virata in grottesco allegorico, per mostrare l'Assurdo del Potere e in simbolo la Struttura della Società; c) la deriva empatica, nell'immedesimazione con i personaggi e le loro Passioni e Pulsioni, di Vita e di Morte.

In Romanzo di una strage il primo elemento è ben operante, il secondo programmaticamente assente (escluso che per la scena, in fortissimo stacco stilistico con il resto del film, della madre di Pinelli in arrivo all'ospedale), il terzo imborghesito in umana comprensione di ogni posizione, con l'eccezione, forse, dei neofascisti che mettono la bomba "cattiva" a Piazza Fontana (per le due bombe vedi sotto). Tutti fanno la loro bella figura, persino Junio Valerio Borghese che appunto in contrapposizione agli unici "incompresi" ha una scena da Guerriero dell'Ideale che il Nero nel Romanzo Criminale di Placido se la sogna. Cito il dialogo con Stefano Delle Chiaie:

Borghese [con sdegno] Sti pazzi su a Milano ma cosa hanno combinato! Avevano detto un fatto clamoroso e sarebbe questo! Una strage di civili!
Delle Chiaie E' la guerra, Principe.
Borghese  [scatta in piedi] Taci! Non usare quella parola! I soldati possono dirla, i macellai no!

E non faccio neppure fatica a immaginare che un dialogo del genere possa essersi svolto nella realtà, ciò non toglie che nella messinscena filmica costituisca un'oggettiva eroicizzazione del personaggio. E a questo punto occorre riportare un'altra citazione, da Wikipedia (tra parentesi, non certo un modello di accuratezza per la nostra storia contemporanea, ma le righe qui sotto mi paiono esatte):

Il processo si concluse il 17 febbraio 1949 con una sentenza che dichiarò Junio Valerio Borghese colpevole del reato di collaborazione militare con i tedeschi per aver fatto eseguire ai suoi uomini «continue e feroci azioni di rastrellamento» ai danni dei partigiani che, di solito, si concludevano con «la cattura, le sevizie particolarmente efferate, la deportazione e l'uccisione degli arrestati», allo scopo di rendere tranquille le retrovie dell'esercito invasore, e per concorso nell'omicidio di otto partigiani a Valmozzola, condannandolo alla pena prevista per tali reati, due ergastoli." (pena poi in vario modo diminuita come potete leggere nella voce).

Tutto è conciliato in Romanzo di una strage. I dialoghi e i gesti sono sempre misurati, e a esemplificazione di come ciò sia difficile da accettare per lo spettatore vedi la mia pustilla Scalfari ha visto un altro Romanzo di una strage, dove mostro gli incredibili errori di descrizione del film compiuti dal grande giornalista e protagonista di quegli anni, che non riesce, fisicamente-intellettualmente, a percepire tutta questa serenità e pacatezza di modi e parole.

Ognuno recita la propria parte con coerenza e onestà, rese disponibili allo spettatore in quanto epifenomeno dell'eterna ripetizione\prolungata decantazione del "film sugli Anni Settanta". E lo si vede già nel volto degli attori: Fabrizio Gifuni interpreta Aldo Moro e ricorda ovviamente Roberto Herlitkza in Buongiorno, notte di Bellocchio, e ancor più quello che ormai chiaramente è il suo altissimo modello attoriale, Gian Maria Volontè, in Il Caso Moro di Giuseppe Ferrara, che a propria volta voleva attivamente dimenticare il ben diverso "Moro" di Todo Modo di Petri.

Ognuno svolge il proprio ruolo con impeccabile coscienza del dovere, il servitore dello stato onesto fa il suo, il servitore dello stato nelle secrete stanze pure, il giornalista anche, e così l'anarchico e così il fascista. In questa classicità che tira alla tragedia greca ogni delitto accade doverosamente fuori scena e per la catarsi del "fatalismo" complottista non si sa mai bene chi l'abbia commesso, in continua oscillazione tra il nessuno e il tutti e due.

Negazione, raddoppiamento, conciliazione e paranoia tutti insieme allo stesso tempo, a testimonianza del fallimento di un progetto di cinema criticamente attrezzato e maturo.

L'agente della Celere Antonio Ammarumma è ucciso da manifestanti o è vittima di un incidente? La bomba (le bombe) di Piazza Fontana è (sono) opera di? (vedi dopo). L'anarchico Giuseppe Pinelli cade da solo o è defenestrato? L'editore milionario e rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli muore sul traliccio per sfiga o per omicidio? Il commissario di Pubblica Sicurezza Luigi Calabresi è ucciso da Lotta Continua o da misteriose entità preoccupate dalle sue inchieste su depositi d'armi e d'esplosivi nei pressi di Gorizia?

Questa "mancanza di chiarezza" è solo in parte motivata da comprensibili ragioni di tutela legale nel caso di accuse non dimostrate in sede giudiziaria (su Pinelli è ad es. ragionevolissimo sospettare che il film non condivida troppo "l'inchiesta conclusa nel 1975 dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio [che] ha escluso l'ipotesi dell'omicidio, giudicandola assolutamente inconsistente") o al contrario passate in giudicato e forse non condivise (per l'omicidio di Calabresi, com'è a tutti noto, sono stati condannati Marino, Bompressi, Pietrostefani e Sofri di Lotta Continua, organizzazione che nel film compare solo con alcune copie di giornale sopra un tavolo in una singola scena).

Nel film non si decide nulla, perché per la conciliazione e la catarsi tutto deve accadere fuori scena e soprattutto "tutto", "il contrario di tutto", e "tutto e il contrario di tutto" potrebbe essere accaduto.

Come si vede anche, con fiero sprezzo del ridicolo, quando Pinelli quasi-dice a Calabresi il famoso "è la fine dell'anarchia!" (espressione notissima, insieme al "balzo felino", delle ricostruzioni di polizia). La frase è infatti virata al condizionale "Se fosse così [se Valpreda avesse confessato] sarebbe la fine dell'anarchia" e Pinelli subito aggiunge "Io non ti credo" (non crede che la confessione di Valpreda sia vera).
Sulla strage di Piazza Fontana non si decide tra anarchici e fascisti, tanto meno sui rispettivi "manovratori", anzi vi sono due bombe, anzi due diverse ipotesi sulle due bombe, come da colloquio finale tra Calabresi e Federico Umberto D'Amato (direttore dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno). Per il commissario vi è una bomba anarchica e simbolica di gelignite, messa da Valpreda e destinata ad esplodere a banca chiusa; e una seconda bomba stragista di tritolo fascista messa da un sosia di Valpreda.

Per D'Amato, che in tutto il film è presentato come il Custode dei Segreti e quindi si prende lo spiegone finale, naturalmente subito denegato e ridotto a fantasia (come pure quello di Calabresi, naturalmente) "non solo due borse, due bombe ma anche due cordate diverse": la prima bomba simbolica da attribuire a Valpreda, ma collocata da un sosia di Valpreda, è ben stimata dalle istituzioni per una svolta autoritaria. "Ma a livello internazionale qualcuno pensa che non basti, pensa a una dittatura vera come in Grecia. Sono questi a mettere la seconda bomba", "Questi chi?" chiede Calabresi e la risposta comprende la "parte più oltranzista della Nato", "ordinovisti veneti" e compagnia brutta.

Questo esaurimento storico e questo delirio interpretativo derivano dal libro a cui è "liberamente ispirato" il film, Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli; dalla sceneggiature di Rulli e Petraglia, la coppia d'eccellenza del nostro "cinema civile"; e dal rapporto tra i due (sempre per l'estetica del raddoppiamento...). Sul libro di Cucchiarelli Giorgio Boatti, autore di Piazza Fontana (Einaudi, 1999), ricordando anche l'intervista a Mario Calabresi citata sopra e quindi il presidente Napolitano, scrive:

Ne “Il segreto di Piazza Fontana”, il libro su cui sono stati acquisiti i diritti per il film, non solo le bombe posate in banca sono due ma sono anche di opposta matrice. Anarchiche e neofasciste.
Per Cucchiarelli Valpreda porta in banca una bomba civetta e dietro di lui, un terrorista nero avvolto nell’ombra, deposita l’ordigno micidiale che farà la strage. Due bombe, ma non solo. In un delirio di sdoppiamento il libro teorizza anche due autisti – uno è il taxista destinato ad essere il teste d’accusa decisivo contro Valpreda, l’altro sparisce nel nulla – che accompagnano a destinazione i corrieri delle bombe.
Due trame stragiste, due bombe, due bombaroli, due autisti, doppi testi d’accusa e di difesa: questo è quanto viene delineato ne “Il segreto di Piazza Fontana” senza che vi siano asseverazioni di fonti, testimonianze individuabili, verifiche inconfutabili. La verità sulla strage si trasforma in un sdoppiamento di soggetti che si moltiplicano con geometrica espansione sino a diventare la folla indistricabile di neri e rossi, terroristi e agenti segreti, anarchici e neofascisti, mandanti e manovali. [...]
Anni di lavoro, libri e ricostruzioni inoppugnabili sulla matrice nera della strage, rischiano di stemperarsi – come ha detto Mario Calabresi, direttore de “la Stampa” nell’intervista al Corriere della sera – in “una nebulosa oscura…Invece la verità storica c’è, eccome. Noi oggi, come ha detto il presidente Napolitano, sappiamo chi è stato, e perché. Conosciamo le responsabilità oggettive e morali. Sappiano che è stata la destra neofascista veneta, conosciamo complicità e depistaggi dei servizi deviati e dell’Ufficio Affari Riservati, sappiamo che nel Paese esistevano forze favorevoli a una svolta autoritaria”. Ma il film, ha detto Calabresi dopo averlo visto, “ti lascia la sensazione che non sappiamo niente, che non abbiamo né verità né giustizia”.

Sul libro e le incongruenze tra questo e il film Adriano Sofri (che, com'è noto a tutti, ha finito recentemente di scontare la pena per l'omicidio di Luigi Calabresi, delitto del quale si è sempre dichiarato innocente, sebbene in anni recenti se ne sia assunto la"corresponsabilità morale"scrive :

Del libro, penso di aver raramente avuto per le mani una tale farragine di errori di fatto, dovuti all’ignoranza di documenti fondamentali, e di illazioni oltraggiose, e mi propongo di dimostrarlo senza lasciare dubbi. Il film, che suscita in me pensieri e sentimenti diversi, è importante e certo destinato a dare la versione più influente su una vicenda così lacerante. Ma da subito ti [Fabio Fazio] pongo questo problema: se si possano accostare e raccomandare insieme un libro in cui Valpreda va in taxi a mettere la sua bomba nella Banca dell’Agricoltura (sia pure immaginando che scoppi a banca vuota), Pinelli è a parte del piano di esplosioni simultanee (sia pure andando rocambolescamente in extremis a farne disinnescare un paio), Calabresi è nel suo ufficio quando Pinelli ne precipita, e sono lui o Panessa a provocare la precipitazione; mentre nel film Valpreda (salvo che io capisca male) non va a mettere la bomba, Pinelli è affatto ignaro e innocente, Calabresi è senza dubbio fuori dalla sua stanza. Ho citato solo tre punti essenziali, sui quali la divergenza è clamorosa. C’è bensì una tesi di fondo sulla quale il film ha voluto seguire il libro, e che io considero delirante: che la bomba della strage (e, nel libro, tutte le altre di quel 12 dicembre, e probabilmente anche numerose altre che costellarono i mesi precedenti) sia stata “raddoppiata”, una bomba senza intenzioni micidiali, un’altra che cercava il massacro; un attentatore anarchico o finto anarchico, un altro attentatore fascista e vigilato dai servizi; una borsa con la bomba, e una seconda borsa depositata accosto alla prima; un taxi di Rolandi, e un altro taxi… Due di tutto. Tu [Fabio Fazio] hai accennato alla cosa all’inizio parlando “della bomba, e probabilmente due” di Piazza Fontana. Non ci furono due bombe.

Constato che, contrariamente ai buoni propositi dell'inizio, sono sprofondato nel dibattito storiografico, ma è inevitabile per un film che si vuole proporre come storicamente autorevole e si appoggia a una fonte che da non specialista definirò "oltremodo dubbia" e a una sceneggiatura capace solo di allargare i buchi che vorrebbe rattoppare.

E se in queste due ultime e lunghe citazioni ci siamo concentrati sul clamoroso raddoppio delle trame intorno alla bomba di Piazza Fontana e sullo sconforto che personalità molto diverse provano di fronte a questa "ricostruzione", prima si è mostrato il processo obnubilante che hanno subito gli altri "episodi".

 

 

Di questo film, perversamente (anche per perversa buona fede) dannoso dal punto di vista storico storiografico e ideologico, e tanto elegante quanto rigido nella rappresentazione resta di positivo, come accade orami con troppa frequenza nel nostro cinema e nella nostra tv, la prova degli attori. Favorito dal ruolo di Santo Anarchico giganteggia Favino, anche se forse è persino superato dal Santo Politico di Gifuni. E pure tutti gli altri, da Mastrandea a Lo Cascio, da Cescon a Antonutti, da Chiatti a Tirabassi, da Colangeli a Zingaretti in cameo sono bravissimi. Ma davvero la "bella prova corale" questa volta non basta.

Sofri riesce purtroppo veritiero profeta quando scrive che un tale guazzabuglio è "destinato a dare la versione più influente su una vicenda così lacerante". E ciò rende sì Romanzo di una strage "un film importante", ma per le usuali ragioni di teratologia storico-sociologica italiana. Nella terra assaltata del "film sugli Anni Settanta", nella terra guasta del "sogno della conciliazione" che per tragica ironia si trasforma sempre in "incubo della paranoia".

Romanzo di una strage, regia M.T. Giordana, con V. Mastrandea, P. Favino, L. Chiatti, M. Cescon, F. Gifuni, produzione Cattleya, Rai Cinema (WikipediaImdb). Uscita nelle sale 30 Marzo 2012.

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