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Qui e ora

Il secondo argomento e chiave di riflessione è il "qui e ora". Molti filosofi hanno discusso su cosa sia il tempo e sulla sua illusorietà, proprio in forza di questi principi hanno cercato di fornire indicazioni su quanto sia importante vivere il presente. Ma tra dire e mettere in pratica ci sono diversi problemi da affrontare. In questa mia riflessione desidero portare un nuovo concetto che sarà difficile da comprendere se ci si limita al simbolismo o ai dogmi. 

Qui e ora

Ci sono alcune filosofie, religioni e perfino alcune teorie psicologiche che sottolineano come sia importante vivere il presente: alcune suggeriscono di mettere pace nel proprio passato risolvendo quanto ci disturba, altre di rendersi conto che è inutile rivangare il passato o interessarsi del futuro ed è meglio cercare di scoprire il proprio grado di consapevolezza quale chiave di comprensione del presente e solitamente, in questo secondo approccio, viene indicata la meditazione quale strumento della conoscenza di sé. 

Se riflettiamo un momento, quando noi pensiamo al presente, di fatto esso è già passato; ciò ci porta a considerare l’impossibilità a vivere (pensare) il presente. Tuttavia questo è un errore dovuto dall’incomprensione tra soggetto e oggetto del problema: il pensiero è sempre proiettato nel passato o nel futuro, l’azione invece è sempre proiettata nel presente. Ho usato apposta il termine “proiettata” per offrire l’occasione di una comprensione più ampia del soggetto che vive quell’esperienza. Apparentemente prendere un bicchiere richiede un certo tempo e qualcuno potrà pensare che l’azione si svolga nel passato, mentre in effetti è il pensiero che, osservando i diversi stadi del movimento, ne percepisce il passaggio: quando pensiamo di prendere il bicchiere, nella nostra mente noi siamo già con il bicchiere in mano, tuttavia nella realtà non lo siamo e questo significa che la mente è già nel futuro. Se ci fermiamo durante l’azione di prendere il bicchiere, è ovvio che nella mente non c’è più l’immagine del bicchiere perché qualcosa ha bloccato o modificato quel processo. Il destino, quello che alcuni pensano già scritto, si basa su questo stesso principio: non è reale fino a quando non viene realizzato e per realizzato non voglio intendere come vissuto. Rendetevi anche conto che sto cercando di farvi capire un concetto profondo attraverso delle parole limitate e quindi fraintendibili.
Andiamo avanti: se nell’azione questo meccanismo è evidente, può esserlo anche per i concetti? Domandiamoci quante sono le cose che pensiamo nostre e in realtà non lo sono? 
 
Capite dove voglio arrivare con questo discorso? È in questo scambio tra dinamismo (azione/reale) e staticità (pensiero/virtuale) che si forma la consapevolezza dell’essere qui e ora, è quel terzo “spazio” invisibile che divide i due estremi: lo yin e lo yang, il buio e la luce, il bene e il male, ecc. 

Avrei potuto utilizzare dei disegni per spiegarmi meglio, ma gli schemi sono molto pericolosi per una mente abituata alle strutturare e in questo caso non sarebbero stati di aiuto perché sarebbero stati come un bel discorso chiaro che avremo condiviso senza approfondirlo ulteriormente e perdendo così l’occasione di riconoscerlo come nostro. C’è un a grande differenza tra condividere un concetto e farlo proprio, tra ascoltarlo e viverlo. Possiamo accorgerci di questa differenza quando, ascoltato un discorso, non lo sappiamo esprimere a parole nostre oppure quando stentiamo a ricordare perfino quanto è stato detto e/o abbiamo preso come dato di fatto qualcosa solo basandoci sulla fonte o sull’importanza che diamo a chi ha parlato. Riflettiamo sopra questo nostro agire, no, meglio, su questo nostro modo di essere. 

Prima di arrivare a concepire che un pensiero che diventa azione non è più un pensiero perché è nel tempo presente, dobbiamo fare attenzione ai processi dei nostri pensieri. Ecco, vedo i vostri occhi smarriti. Cosa significa questa frase? Significa che ogni pensiero, anche quello più intimo e nascosto, non va perso; tutto viene vissuto e raccolto da qualcosa che sta sopra di noi o meglio sopra il nostro piccolo io. Per poter comprendere questo passaggio, dicevo, si deve comprendere quanto sia limitata la mente nel percepire e concepire questo stesso presente: è l’ago della bilancia che resta ferma a metà di due estremi e paradossalmente rappresenta l’immobilità assoluta espressa nel massimo dinamismo che l’uomo può manifestare attraverso l’interazione e la collaborazione tra corpo e mente. La mente può indubbiamente intuire questo processo ma non potrà mai toccarlo con mano perché non ha ancora gli strumenti per viverlo e quando li avrà, se mai li avrà, non rimarrà certo qui a raccontarvelo. Per questo motivo ciò che la mente pensa oggi del presente è solo una idealizzazione e una teoria. 

Cos’altro ci fa percepire il presente? È il corpo nella sua globalità, quando si muove in direzione di qualcosa d’importante. Muoversi non è un atto esteriore, come si può pensare, è un movimento interiore. Troppe volte cadiamo nell’inganno di credere che conoscere e apprezzare i valori di un libro, un sito, un gruppo equivalga a metterli in pratica. C’è chi pratica la meditazione cercando nell’assenza di movimento un migliore punto di osservazione di sé, ma questa è una strada lunga che richiede costanza, umiltà e soprattutto resistenza, cosa, quest’ultima, difficile per gli occidentali, che in genere sono abituati a volere subito il massimo dei risultati senza fatica. Parrebbe, dal mio discorso, che sia molto più semplice e facile essere nel presente per chi si muove e si adopera semplicemente nell’azione: vedi quanti si adoperano nell’associazionismo per il bene del prossimo. Anche con questa pratica, però, la questione non cambia, perché è la consapevolezza o, forse più comprensibilmente l’attenzione a fare la differenza. Il fatto di affaticarsi, di aver detto una parola buona, di aver aiutato qualcuno è un indubbio atto di bontà che non ha prezzo, ma il suo valore per il nostro essere qui varia in rapporto non all’azione in se stessa, ma alla reale consapevolezza con cui facciamo quell’azione. Perché, ad esempio, possiamo agire con secondi fini, fosse anche quello di sentirsi buoni o dalla parte giusta, e questa intenzione non migliorerà la qualità di quell’azione e non ci servirà a migliorare il nostro essere qui e ora. 

Ora domandiamoci: quante volte facciamo una cosa pensando ad un’altra? Vedete, questo è il problema: deve esserci allineamento tra mente e corpo, tra pensiero e azione, tra parola e intenzione. Purtroppo spesso questi processi non avvengono linearmente ed è per questo motivo che lo scollamento tra corpo e mente causa per l’essere umano l’impossibilità di essere qui e ora. Allora cosa possiamo fare? Nulla di più semplice che rieducarci ad essere attenti alle cose che facciamo: attenti a cosa scriviamo o diciamo, attenti al significato delle parole, attenti alle sfumature dei gesti, dello sguardo e alle azioni quando siamo per strada o invadiamo lo spazio e i discorsi altrui. All’inizio, purtroppo, ci accorgeremo solo delle nostre difficoltà, poi con il tempo, ci accorgeremo di aver lasciato la nostra mente troppo libera di pensare quello che vuole: drogata di una libertà non sua che non permette alla vostra reale volontà di agire liberamente. Scopriremo il bambino che è in noi in questo caso, un bambino capriccioso e svogliato. 

Ecco, qui inizia la prima educazione di noi stessi. Forzandoci a seguire un programma giornaliero, a tenere un diario se volete, dove un giorno scriveremo sulla pagina sinistra cosa dobbiamo fare il giorno seguente e poi la sera successiva cosa abbiamo fatto o non fatto. Il livello di rigidità nell’applicarci dipenderà solo da noi e potremo arrivare perfino a segnalare ora per ora il nostro percorso e a cercare di mantenere il programma negli orari che ci eravamo prefissati. Non meravigliamoci se all’inizio ci sembrerà ridicolo o difficile, più sarà difficile e più avremo la possibilità di comprendere quanto e come la nostra mente influenza la nostra vita. Se non riusciremo nei nostri programmi non abbattiamoci, cerchiamo di comprendere le nostre abitudini e accettiamo che ci vuole tempo per rieducarsi. Solo così possiamo procedere nella conoscenza di noi stessi. Come vedete, questo semplice esercizio, come altri che potrete inventarvi o scoprire durante il vostro percorso, vi aiuteranno a scoprire come gestite la vostra vita. Se non prendete in mano la vostra vita in modo pratico, voi non potrete mai dire di accettare realmente la verità di un altro, ma farete solo finta di accettare ciò che dice pensando che ognuno è libero di pensare quello che vuole perché ognuno ha la sua verità. Questo modo di procedere non è una ricerca interiore che si cerca di collegare le verità diverse, ma solo una voluta indifferenza che porta a nascondere qualcosa che non ci convince e ci dà, magari, anche fastidio e per non confrontarci soprassediamo. 

Do qualche ulteriore indicazione sui termini da me usati. Quella che io definisco “percezione” viene chiamata nei testi esoterici del Cerchio Firenze 77 “sentire” oppure nei testi di Krishamurti “insight” (tradotta in italiano con “quid”). Si tratta di un qualcosa che sfugge ai sensi e si collega con quello che dovrebbe essere il nostro vero essere. Nel mio scritto riguardo “La libertà” ho fornito l’idea che il primo passo per iniziare la propria percezione avviene quando siamo costretti a fare qualcosa che non ci piace perché dobbiamo applicare una volontà che si deve opporre a ciò che piace al nostro io. Questo distacco tra volontà e io non deve portarci ad uno scollegamento tra quello che crediamo di essere e quello che siamo; dobbiamo mantenere sempre l’unità di ciò che siamo, altrimenti cadremo nell’errore di pensare che ci sia un dualismo tra ciò che manifestiamo e ciò che siamo. In parole povere: non è cambiando nome o vestito che si cambia realmente, ma solo conoscendo il proprio atteggiamento fino nelle viscere. 

Ora vi domando: per procedere nel qui e ora dobbiamo prendere coscienza di cosa sia la consapevolezza oppure dobbiamo fare nostro questo concetto? Entrambe le cose: il primo passo è quello di fare nostro il concetto, poi dobbiamo digerirlo, quindi assimilarlo e per ultimo essere quel concetto. Questo processo che sembra richiedere moltissimo tempo è in realtà un istante, dipende da quanto siamo trasparenti a noi stessi. Essere trasparenti non significa essere invisibili, perché una parola descrive un essere e l’altra un fare. Essere trasparenti significa essere senza veli e saper vedere dentro noi stessi ciò che siamo, quindi anche la parte più negativa di noi stessi. L’immagine approssimativa che possiamo avere di questo processo è quella di avere un bambino da accudire, di cui conosciamo tutto o quasi, che necessita sempre di una costante attenzione, cura ed educazione. È come dire: dobbiamo usare la mente, il corpo, il mondo, piccolo o grande che sia, come se fossero un bel bambino che necessita di noi, della parte migliore di noi. È un esercizio molto difficile perché, come ogni bambino, l’io guarda come va la società, che siamo noi, e ci porterà via tempo, energie e tenterà in ogni modo per distrarci con i suoi capricci e le sue furbizie. 

Nonostante le parole forniscano spesso simboli e immagini archetipe, esiste anche un altro aspetto, forse più legata agli archetipi religiosi e all’ambito degli assoluti: è quella di vedere il mondo come il risultato dell’azione di un angelo che ha creato qualcosa fuori dal mondo spirituale. C’è la possibilità che quel dio dell’Antico Testamento non sia il vero Dio di cui parlò Gesù, ma l’architetto di questo mondo e l’uomo sia il suo figlio manifesto. Tuttavia la benevolenza di Dio e dei suoi Figli Spirituali non è mancata perché sono entrati in questo mondo per dare l’opportunità di far tornare l’architetto e le sue creature nello Spirito. Anche in questo caso, l’anima e la sua identità terrena dovranno prima riconoscere quel padre terribile che voleva instillare la conoscenza del bene e del male attraverso l’esperienza e, presa coscienza della propria interiorità, superare i suoi stessi limiti e salire al Padre e allo Spirito. Il figlio generato, l’anima, con questa azione non abbandona il padre ma anzi gli porge una mano per sollevarlo dalla sua creazione. Questo è andare oltre il qui e ora e corrisponde alle parole di Gesù: “Farete cose più grandi delle mie” e non dimenticate che non è importante se sembra un favoletta, quanto quello che fa muovere dentro di voi.

Ora scendiamo un secondo: qui e ora tutto è sempre possibile prima della morte. Tuttavia, come sempre, dipende da noi e dalla nostra capacità di osservare, accettare, aprirci e riconsiderare le nostre piccole verità per riuscire nell’intento. Buon lavoro a tutti. 

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