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Quando progressisti e femministe appoggiarono il proibizionismo

 

Pochi sanno che la più famigerata e oppressiva legislazione “perbenista” (Stati Uniti, 1919-1933) fu approvata anche col sostegno di…

Per chiunque viva nelle nostre, più o meno libere, società occidentali e abbia un briciolo di intelligenza civile e sociale, “proibizionismo” è un termine certamente sinonimo di intolleranza, bigottismo, stupidità e, soprattutto, di inutilità, anzi, di spreco di risorse umane ed economiche. Ancora, di “favore” fatto ai criminali, alle mafie, agli spacciatori, che possono, grazie alle legislazioni proibizioniste, realizzare enormi profitti su droga, prostituzione, gioco clandestino e tutto ciò che, essendo vietato dai benpensanti, ma desiderato dall’umanità (alcool, fumo, eros, divertimento, azzardo), finisce per essere pagato a caro prezzo e gestito da delinquenti. Così, in un circolo, davvero “vizioso”, quanto più tutto questo genera ulteriore desiderio, tanto più si elevano repressione e pene, tanto più si arricchiscono i criminali.

Del resto, viviamo nel Paese delle leggi “Fini-Giovanardi” e “Bossi-Fini”, del proibizionismo spinto al massimo, delle carceri stracolme di tossicodipendenti e migranti, di rimedi molto ben peggiori dei presunti “mali” che si vorrebbero combattere. Siamo il Paese della cosiddetta “emergenza sicurezza”, inventata dalle destre per raccattare voti, della sessuofobia ipocrita (anche al di là della omofobia e della transfobia), del “tutti dentro”, in cui non è tutto lecito tranne quello che è proibito, ma, al contrario, è tutto proibito, tranne ciò che è concesso.

Piuttosto, in un numero della nostra rivista dedicato alle “curiosità”, dovrebbe colpire la schiera dei sinistrorsi bacchettoni – che già abbiamo attaccato nel nostro "I tanti, troppi pregiudizi dei “progressisti” bigotti" e altrove – una verità storica che, come sovente accade, è scomoda e quindi si tende a sottacere, anzi proprio a censurare. E se da puritani, integralisti e fondamentalisti dichiarati ci attendiamo questo e altro, ci aspetteremmo invece maggiore “apertura mentale” da chi afferma di difendere libertà e diritti civili e, invece, poi… Andiamo ai fatti.

Come tutti sanno, gli anni Venti degli Stati Uniti passano alla storia non solo per il crollo della borsa di New York, che avvenne, del resto, proprio al crepuscolo del decennio – il 1929 –, ma soprattutto per la grande espansione economica e il contemporaneo proibizionismo. Nel 1919 il Congresso statunitense bandì la produzione e l’uso di bevande alcooliche (XVIII emendamento). Nonostante l’opposizione dello stesso presidente Thomas Woodrow Wilson, un anno dopo si approvò pure il Volstead Act, secondo il quale ogni bevanda che contenesse almeno lo 0,5% di alcool andava considerata «intossicante». Si apriva, così, quasi un quindicennio di repressione, distillazione clandestina e pericolosa per la salute, violenze di ogni tipo, escalation della criminalità organizzata (epoca dei gangster irlandesi, ebrei, italiani, tra cui il celebre Al Capone)… Ma come si era arrivati all’approvazione di leggi così stupidamente liberticide e controproducenti?

Da anni era in atto uno scontro ideologico tra i wets («bagnati», ovvero gli antiproibizionisti) e i drys («asciutti», cioè chi sosteneva i divieti, peraltro già approvati in passato in vari stati dell’Unione). Rientravano nelle schiere dei primi, gli appartenenti alle classi popolari e degli immigrati, sostenuti dai partiti delle grandi città e dalle principali industrie di birra e di liquori; i secondi, invece, appartenevano maggiormente alle classi medio-alte ed erano appoggiati dal clero delle diverse Chiese (in particolare, i fedeli radunati dei movimenti della Women’s Christian Temperance Union e dell’Anti-Saloon League). I due schieramenti erano pari.

Ecco il nocciolo della questione: molti progressisti, convinti di migliorare il tenore di vita delle masse, combattendo, con l’uso dell’alcool, anche la povertà, l’abbruttimento e la disoccupazione, sostenevano il proibizionismo. Così come gruppi femministi, che imputavano all’ubriachezza dei maschi, i maltrattamenti subìti dalle donne e dai bambini da parte dei “capifamiglia”. Anche per queste ingenuità moraliste, si giunse all’approvazione della legislazione del 1919-20.

Per la cronaca, solo nel 1933 il presidente del New Deal, Franklin Delano Roosevelt, di fronte ai risultati controproducenti della campagna proibizionista, abrogò la relativa legislazione. Era il XXI emendamento. A quando un XXI emendamento anche in Italia, che spazzi proibizionismo, clandestinità, criminalità connessa e svuoti le carceri da tossicodipendenti e migranti?

Rino Tripodi

Questo articolo è stato pubblicato qui

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