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Probabilmente non leggerete questo articolo

(di Barry Malone, per AlJazeera. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio).

C’è qualcosa nei suoi occhi. Qualcosa di più dello sconcerto che si vede così spesso nei volti degli innocenti vittime delle guerre degli altri. È qualcosa che ti perseguita. Qualcosa che ti raggiunge con più potenza non nella mente, ma in un luogo più prosaico. Nelle tue viscere. Nelle tue ossa.

La sua espressione sembra implorare in modo diretto. Per chiederti: Ti importa? Mi vedi?

Quando abbiamo visto questa immagine, non ce n’era un’altra che sembrasse più appropriata per finire in homepage il 15 marzo, il giorno in cui la Siria è entrata nel suo quinto anno di miseria e caos. Il suo quinto anno di massacri.

Molti gruppi per i diritti umani e molti siriani avevano un’accusa potente da rivolgere quel giorno. Il mondo, hanno detto, ha fallito rispetto al Paese e alla sua gente. Al mondo ha smesso di interessare.

A volte il giornalismo stesso sembra una lotta per far sì che alla gente importi.

E altrettanto spesso, forse anche più spesso, è una lotta per far sì che a te importi. Ogni giorno i media si occupano di storie di morte, devastazione e disperazione. Troppo spesso sembra solo lavoro, solo lì per essere svolto. Un giorno di paga da guadagnarsi.

Ma noi abbiamo un dovere. Perché queste sono le storie di altre persone.

E meritano di essere ascoltate.

Il giorno dell’anniversario abbiamo pubblicato molti contenuti. C’erano documentari esaltanti, forti polemiche, dipinti siriani, infografiche, analisi, interviste, analisi e notizie. C’era lo streaming della tv. Abbiamo provato a portare il nostro pubblico nelle vite di chi si trova in quella morsa.

Il tutto presentato dalla donna insanguinata, quello sguardo che prende quasi tutto lo schermo.

Ma il numero di persone che ha visitato il nostro sito quel giorno è stato molto più basso di quanto ci aspettassimo. Mentre guardavamo le analisi e prendevamo nota del traffico, quella sferzante accusa di apatia sembrava giustificata.

Ci sono variabili, certo. Gli anniversari di solito non catturano l’immaginazione, alcuni preferiscono altri canali di informazione per le notizie sulla Siria, e forse il nostro lavoro non è stato ciò che sarebbe potuto essere.

Poi c’è la stanchezza. Sono stati anni duri per il mondo. Siria, Iraq, Nigeria, Libia, la Repubblica Centrafricana, il Sud Sudan, l’Ucraina, la Somalia e oltre. Le storie oscure prevalgono.

Non ho mai sentito così tanti giornalisti dire che il lavoro li sta stritolando, né così tanta gente che guarda i telegiornali dire che non ce la fa più. Essere testimoni è estenuante.

Fare fronte alla nostra indifferenza

Dal 2012 abbiamo visto un ristagno nel traffico rispetto alle nostre storie sul conflitto in Siria, con picchi a intermittenza quando si arriva nelle prime pagine: Asad che dice qualcosa di inconsueto, la possibilità di missili occidentali.

Di recente, anche se ci sono stati picchi occasionali, appaiono perlopiù collegati allo Stato islamico. La presa di Falluja, la caduta di Mosul, le esecrabili decapitazioni e la Storia presa a martellate.

Le menti contorte rubano la scena. E le persone a cui dovremmo prestare attenzione sbiadiscono sullo sfondo, attori marginali in una narrativa a torto ed ingiustamente dominata dal grottesco.

Ci accorgiamo che le storie sul soffocante stritolio e sulla difficoltà quotidiana della guerra non si impongono altrettanto. E neppure le storie dei quasi 4 milioni di siriani che sono stati costretti a fuggire dal proprio Paese.

Quando abbiamo twittato l’accusa che al mondo non importa, molte persone la hanno ritwittata. Ma gran parte di loro non ha cliccato sul link per leggere le nostre storie. Forse volevano far vedere che ci tengono. Forse credono che alla gente dovrebbe importare. Ma a loro non è importato abbastanza leggere cosa avevamo scritto.

Questa è una vergogna.

Perché era un’occasione per fare il punto. Per fare un passo indietro. Per riflettere sul fatto che oltre 220 mila persone sono state uccise e metà della popolazione di un Paese è stata spinta fuori dalle proprie case. Era un’occasione per chiedere al popolo siriano di cosa ha bisogno da parte nostra. Per fare pressioni sui nostri governi perché accolgano i siriani.

La nostra indifferenza è qualcosa a cui abbiamo bisogno di pensare e di cui dovremmo parlare. Come giornalisti, dovremmo mettere in discussione la nostra prestazione. Come persone, la nostra umanità. Perché possiamo fare meglio.

E quella donna nella foto dovrebbe sapere che noi la vediamo.

 

(AlJazeera, 17/03/2015).

Questo articolo è stato pubblicato qui

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