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Per Confindustria siamo come in guerra. E l’Italia non cresce

“I danni economici fin qui provocati dalla crisi sono equivalenti a quelli di un conflitto".

Lo ha scritto il Centro studi di Confindustria, commentando una lunga serie di dati negativi rilasciata ieri. Il nostro Pil quest’anno si contrarrà dello 2,4%, più ancora dello 1,6% fin qui previsto, e anche l’anno prossimo continueremo ad impoverirci (dello 0,3%) anziché ricomunicare a crescere (dello 0,6%) come si sperava. Aumenterà anche la disoccupazione, che dovrebbe arrivare al 12,4% a fine 2013, quando il nostro Pil pro-capite arriverà ad essere del 10% inferiore a quello del 2007. Una vera e propria disfatta, resa ancor più grave dal fatto che, sempre nelle parole di Confindustria, “ad essere colpite sono state le parti più vitali e preziose del sistema Italia: l'industria manifatturiera e le giovani generazioni”.

Quel che nessuno dice, dentro Confindustria, pur ammettendo l’esistenza di generici “mali antichi”, è che la maggior parte dei nostri imprenditori questa guerra non ha mai neppure cominciato a combatterla. Mentre i loro colleghi del Nord Europa reagivano alla globalizzazione entrando in nuovi mercati, rivoluzionando i propri prodotti e mettendone a punto di completamente nuovi, gli industriali italiani hanno continuato a fare le cose di sempre, spesso con i macchinari di sempre, senza trovare sbocchi commerciali che fossero diversi da quelli di sempre. Imboccata già negli anni ’70, per migliorare la propria competitività, la scorciatoia della riduzione sistematica del costo del lavoro (a questo provvedevano allora le periodiche svalutazioni della lira), non sono riusciti a fare altro che continuare a percorrerla anche quando i loro concorrenti non erano più tedeschi o francesi, ma cinesi e indiani o addirittura cambogiani e vietnamiti.

Una scelta straordinariamente miope, come appare evidente oggi, mentre il costo del lavoro italiano è tra i più bassi dell’OCSE senza che le nostre aziende siano per questo più competitive: proprio la riduzione dei salari reali (siamo arrivati a questo, con il beneplacito di sindacati prontissimi a difendere tutto tranne le buste-paga dei propri iscritti) ha determinato la contrazione del mercato interno che a sua volta è, prima ancora della crisi del debito, tra le cause principali del nostro disastro.

E dire che a produttori di tessuti, piastrelle, mobili e quant’altro, sarebbe bastato guardare dentro i nostri confini, anzi al nostro Sud, per trovare un esempio di quel che avrebbero dovuto fare; imitare i viticultori di quelle zone che associandosi sono riusciti a migliorare enormemente la qualità dei propri vini, a cambiare radicalmente la propria immagine e ad entrare in mercati completamente nuovi. Gli industriali, spesso alla testa di aziende troppo piccole per fare da sole ricerca ed innovazione o per pensare di sbarcare in altri continenti, non hanno invece neppure pensato a fare delle proprie associazioni qualcosa di diverso dai circoli Pickwick, buoni ad organizzare cene, convegni e null’altro, che sono sempre state; hanno continuato, anche dentro i vari distretti produttivi, tra vicini di capannone, a farsi una concorrenza spietata, senza mettere in comune conoscenze e risorse, senza creare quelle grandi “aziende estese” che avrebbero dovuto essere la logica, ovvia, risposta italiana alla concorrenza dei paesi emergenti.

Sono troppo duro con loro? La nostra pubblica amministrazione è disastrosa? La nostra burocrazia è asfissiante? Le nostre infrastrutture sono fatiscenti? Tutto verissimo, come pure è vero che gli imprenditori sono lasciati soli ad affrontare i mercati internazionali, ma per cambiare questo stato di cose, per migliorare la competitività del paese al di fuori dei cancelli delle aziende, la loro associazione non ha fatto nulla, limitandosi a delle blande proteste; niente di paragonabile alla già ricordata battaglia per il contenimento del costo del lavoro e a quella, assai meno confessabile, condotta per godere di una sostanziale impunità fiscale. 

Avere ridotto a questo il proprio ruolo di classe dirigente, fa degli industriali gli italiani che meno hanno diritto a lamentarsi della politica; erano loro, d’altra parte, non altri, solo un paio d’anni fa, ad applaudire a scena aperta Silvio “sono uno di voi” Berlusconi: considerando la qualità del suo governo e la situazione in cui si trovava il paese, una vera dimostrazione di cecità.

“Siamo nell’abisso”, dice il direttore del Centro studi di Confindustria. Sì, e c’eravamo già allora. Non ve n’eravate accorti?

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