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Pecorina ministeriale, lingue straniere e i problemi della scuola italiana

L’ennesimo svarione del nostro Ministero dell’Istruzione, che, nel bando di un concorso redatto in inglese, ha confuso il formaggio pecorino con una posizione dell’amore (vi rimando ad altri articoli pubblicati da Agoravox per saperne di più) ha fatto ridere mezz’Italia, ma, sorprendentemente, pare non abbia scandalizzato molti; l’inglese, qualcuno è arrivato a dire, è una brutta lingua e la sua conoscenza, in fondo, indice di provincialismo. Io avrei un’altra, amara, opinione.

Non è sbagliato in sé, definire una lingua più o meno bella, se ci si ricorda che quando si danno giudizi di questo tipo si è tanto oggettivi quanto quando si critica un quadro o un film, magari senza sapere nulla di pittura o cinematografia; che si dà quindi una valutazione sempre sommamente personale, per certi versi sentimentale, che non ha alcuna base scientifica o anche solo razionale.

Per me tutte le lingue del mondo sono bellissime; rappresentano, prendo in prestito l’immagine che Abulafia riserva alla sacre scritture, facce diverse dello stesso scintillante diamante: dell’ umana intelligenza e della sua capacità descrivere e spiegare il mondo.

Pochissimo senso ha anche definire una lingua come più o meno provinciale: è qualcosa che ha a che vedere con una visione sempre e comunque parziale ed ideologica del mondo; un operazione, che contiene un giudizio implicito sulla cultura che in quella lingua si esprime, che, ancora una volta, non può avere nulla d’oggettivo.

Quel che è verissimo, è che in ogni epoca, pur essendo migliaia le lingue parlate sul nostro pianeta, solo pochissime tra loro sono diventate “veicolari”, vale a dire utilizzate per comunicare tra loro da uomini di diversa cultura, spesso per il semplice motivo d’essere quelle usate dalle varie amministrazioni di forti poteri centrali (pensate all’Aramaico dell’impero di Sargon, al greco e al latino, di Roma e della Chiesa, prima che all’inglese) o, più raramente, perché adottate per questioni di medietà e semplicità linguistica (l’inglese, ancora, che è anche via di mezzo tra lingue romanze e germaniche, come lo swahili, lingua completamente artificiale sorta, per essere intesa dalle popolazioni di un quarto dell’Africa, come fusione di tra arabo e lingue bantù) per i traffici ed i commerci.

Dare un giudizio estetico, in questi casi, è addirittura stucchevole. Non importa se si pensi che l’inglese sia bello o brutto e neppure se si amano o meno l’Inghilterra e gli Stati Uniti; quella di Shakespeare, è la lingua veicolare della nostra epoca e non conoscerla significa essere tagliati fuori (o condannati a seguirla solo di riflesso e in seconda battuta) dalla circolazione delle idee: essere davvero dei provinciali.

Detto questo, mi pare evidente che solo chi si vuole ostinare a non comprendere i più semplici dati di fatto del mondo in cui viviamo possa sottovalutare l’importanza della conoscenza dell’inglese e che, nell’insegnare questa lingua ai propri allievi, la scuola italiana, dalle elementari alle università, sia un completo fallimento; quasi tutti i nostri giovani bofonchiano un po’ d’inglese, ma solo pochissimi lo parlando decentemente e, di solito, per averlo appreso lontano dalle lingue scolastiche.

Un risultato che forse ha a che vedere con le modalità d’insegnamento, che mi paiono (dico così perché non ho neppure frequentato il liceo) essere pedissequa imitazione di quelle tradizionalmente adottate per le lingue morte, ma certo si spiega anche con il livello, mediamente atroce, della competenza dei laureati in lingue che con queste modalità sono stati formati, prima d'essere chiamati ad applicarle con altri. Non me la sentirei mai di esprimere giudizi su chi ha lauree in altre discipline, ma, per la mia biografia (parlo e scrivo con scioltezza in quattro lingue, con qualche difficoltà in più in altre in due, e me la cavo in un’altra mezza dozzina ancora) posso affermare che molti di loro sono quasi ridicoli nella loro assoluta ignoranza della lingua di cui dovrebbero essere specialisti.

Ho conosciuto, in questi anni passati in giro per il mondo, dei nostri anglisti, laureati a pieni voti, che avevano bisogno del dizionario per leggere un libro di un autore contemporaneo e con un pronuncia tanto cattiva da far dubitare che quello che usciva a mozziconi dalla loro bocca fosse inglese. Ho conosciuto più d’un laureato in ungherese, che, magari appena dopo aver brillantemente discusso la propria tesi, che non era in grado, in quella lingua, di sostenere anche la più semplice conversazione; incapace, addirittura, anche solo di dire decentemente arrivederci.

Ho conosciuto, tanto per fare dei paragoni, dei laureandi ungheresi della facoltà di letteratura italiana di Budapest che parlavano un italiano migliore del mio, senza il mio pesante accento alpino, e che della cultura italiana contemporanea sapevano più di me. Ho conosciuto quest’anno un gruppetto di studenti di italiano ad UCLA che, pur parlando la nostra lingua con un poco, ma davvero un poco, d’accento, mi hanno lasciato estasiato per la profondità della loro conoscenza dell’italia del secondo dopoguerra (si parlava di un mio scritto ambientato in quel periodo); capaci, due di loro, di chiosare, in italiano, sulla interpretazione che Fortini dà di Lukacs. Io? Me ne sono stato zitto e, mentalmente, ho cercato di prendere appunti; avevo solo da imparare.

Dove voglio arrivare a parare?

Credo che la scarsa conoscenza delle lingue da parte dei nostri giovani sia solo un indizio del cattivo stato delle nostre scuole ed università. Il prodotto di una serie di vezzi, primo tra tutti l’odio o quasi per il testo (quante volte i miei amici colti, parlando di questo o quell’autore mi dicono: “L’ho fatto a scuola; non ho mai letto niente di suo”), che ha tra le loro conseguenze anche la più completa mancanza di un vero spirito critico da parte dei nostri ragazzi più brillanti; di quella che dovrebbe essere la nostra classe dirigente di domani.

Credo risultato ultimo della nostra istruzione superiore, per parafrasare il titolo del libro che Allan Bloom ha dedicato, nel 1987, al sistema educativo americano, sia una totale “chiusura della mente italiana”; che venti anni di studi, così come ora sono condotti, non facciano altro che neutralizzare il potenziale degli anni migliori delle nostre menti migliori; che conducano ad un finale e definitivo appecoramento , per usare un linguaggio ministeriale, dei singoli e con loro della società.

 

Credo, giudicando dai risultati e continuando con i paragoni tra le due sponde dell'Atlantico, che si possa dire delle nostre scuole ed università quel che John Taylor Gatto dice di quelle statunitensi: che non siano fabbriche di cultura, ma strumenti per il controllo e la manipolazione delle coscienze. Che siano istituzioni capaci solo di fornire nozioni scollegate tra loro o unite da nessi, ad ogni modo, non interiorizzati dagli allievi; appartenenti a una logica diversa da quella della curiosità del singolo, inscatolata in una relazione con l’insegnate simile a quella, sempre e solo passiva, che si ha con il televisore.

 

Una curiosità uccisa in fasce, per produrre i monotoni pezzi necessari al funzionamento della macchina sociale, dimenticando che, secondo la più bella tra le molte belle lezioni di Kenneth Clark, è proprio la curiosità ed essere la madre di qualunque civiltà.

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