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Società quotate: cosa attendersi dalla riforma delle regole

La revisione del Testo Unico della Finanza avviene in una stagione profondamente diversa da quella in cui nacque. Un contesto che non fa ben sperare sugli esiti della riforma.

di Luca Enriques

Il 21 marzo si è insediato il “Comitato di Coordinamento per l’analisi e l’approfondimento delle tematiche inerenti la riforma organica delle disposizioni in materia di mercato di capitali”, questo il nome ufficiale del gruppo di esperti e rappresentanti di Banca d’Italia e Consob che darà supporto al Ministero dell’Economia (MEF) nella riscrittura, entro un anno, del Testo Unico dell’intermediazione finanziaria (TUF) del 1998, noto anche come “legge Draghi”, dal cognome di chi all’epoca ne presiedette i lavori preparatori.

Il compito della Commissione non è facile: rivedere il TUF per favorire la quotazione di nuove imprese e in genere lo sviluppo del nostro mercato di borsa. Lo si dovrebbe fare semplificando e sfrondando il quadro normativo ma, al contempo, rendendo le imprese “maggiormente attrat­tive per gli investitori internazionali”, come si esprime la legge delega. Spesso però regole, anche complesse, servono proprio a persuadere gli investitori a comprare le azioni, attribuendo loro poteri e assoggettando a controlli chi, amministratore o socio di maggioranza, domina le società.

In un intervento sul Sole 24 Ore abbiamo indicato come si potrebbe tentare di conciliare i due obiettivi, ma il crinale è stretto e, soprattutto, le condizioni di contesto non sono le più favorevoli. Un confronto tra il clima culturale e politico nel quale fu concepito il TUF e quello attuale aiuta a comprendere le ragioni per cui è difficile, anche, senza mettere in dubbio le competenze della squadra di Giorgetti e Freni, essere ottimisti sull’esito del processo. In sintesi: lo Stato è diventato un privatizzatore riluttante, gli azionisti di minoranza sono diventati gigantesche istituzioni finanziarie quasi esclusivamente americane, le opa ostili godono di pessima stampa e la fuga delle società italiane verso la più liberista Olanda ha innestato una “corsa al ribasso” difficilmente reversibile nella tutela dei soci.

DA PRIVATIZZATORE TOTALE A PRIVATIZZATORE RILUTTANTE

Si consideri anzitutto che nel periodo in cui fu elaborato il TUF (1997-98) erano ancora in pieno corso le privatizzazioni: spesso vere privatizzazioni, giuste o sbagliate che fossero, con le quali lo Stato cedeva la sua intera partecipazione (v. ad es., oltre che alle ex banche di interesse nazionale, Telecom Italia e SEAT, cedute proprio a ridosso dei lavori del TUF). Il Governo doveva fare cassa per raggiungere l’obiettivo dell’ammissione nell’eurozona e aveva un forte interesse a vendere bene: il TUF era funzionale anche a questo intento. I suoi due pilastri furono regole a tutela delle minoranze simili a quelle a cui i grandi investitori erano abituati nel proprio paese e una disciplina volta a far funzionare il mercato del controllo societario: anche in Italia, grazie al TUF, le offerte pubbliche di acquisto (opa) ostili avrebbero fornito lo stimolo a una gestione orientata alla creazione di valore per gli azionisti.

Oggi, è vero, il Governo è tornato a privatizzare. Forse riuscirà a cedere ITA a Lufthansa, potrebbe cedere il controllo di MPS e venderà presto una quota (non di controllo) di Poste. Ma nessuno, tra i partiti di maggioranza o di opposizione, ha la benché minima idea di cedere il controllo di ENI, ENEL, ENAV, Snam, Terna, Leonardo e così via. Dunque, le privatizzazioni hanno un ruolo secondario rispetto alle sfide della gestione del debito pubblico: se le cifre di cui si parla sono piccole, allora anche il maggior incasso che può assicurare la presenza di buone regole di diritto societario è trascurabile. Al contrario, il ruolo di socio di controllo che ormai si è ritagliato lo Stato in tante grandi società quotate rende i suoi interessi semmai contrapposti a quelli degli azionisti di minoranza: quanto più le regole tutelano questi ultimi, tanto meno lo Stato potrà piegare le sue controllate ai propri disegni, che facilmente possono essere incoerenti con l’obiettivo di creare valore per gli azionisti.

Il TUF si rivelò efficace nell’intento di persuadere gli investitori circa il miglioramento di qualità del diritto societario italiano; assai meno, in verità, nel tutelarli in concreto, come gli scandali Parmalat e Cirio di pochi anni dopo resero purtroppo chiaro. E tuttavia, anche in risposta a quegli scandali, la disciplina italiana a tutela dei soci di minoranza ha fatto passi avanti notevoli negli ultimi vent’anni: oggi, al netto dei perduranti problemi di efficacia dell’enforcement privato e pubblico che da sempre ci caratterizzano, abbiamo regole a tutela degli azionisti di minoranza tutto sommato equivalenti a quelle di molti altri paesi europei.

DAL PARCO BUOI AI GIGANTI DISTRATTI

Negli ultimi decenni si è assistito a un cambiamento significativo nell’azionariato delle società per azioni quotate, in Italia e altrove:

  1. gli azionisti di minoranza sono sempre più investitori istituzionali invece che persone fisiche;
  2. tali investitori sono a grande maggioranza statunitensi, mentre quelli italiani sono ridotti al lumicino;
  3. il mercato del risparmio gestito è oggi dominato da quattro giganti, azionisti significativi in tutte le principali società quotate, all’estero come in Italia;
  4. fondi attivisti sono nel frattempo arrivati anche in Italia e, per ovvi motivi, non godono delle simpatie di chi controlla le società quotate.

Il corollario di questi cambiamenti è che oggi gli azionisti di minoranza suscitano assai meno “simpatia” che in passato. Detto altrimenti, il peso politico degli investitori istituzionali in Italia è modesto: com’è intuitivo, fare lobbying in modo efficace per chi viene da un altro paese è più difficile che per i gruppi di interesse locali.

DALLE OPA OSTILI AI POTERI SPECIALI CONTRO I PAESI OSTILI (E NON SOLO)

Anche per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti delle opa ostili molto è cambiato. Il TUF fu ampiamente ispirato dallo spirito del tempo, che vedeva nelle opa ostili un modo efficace per far sì che i manager gestissero la società nell’interesse dei soci. A quei tempi anche la Comunità Europea premeva per armonizzare le regole in materia di opa in modo da favorire la creazione del mercato unico.

Come ho documentato con Matteo Gatti, l’idea delle opa ostili come igiene della corporate governance ha subito negli ultimi vent’anni la sorte di Ratchett/Cassetti in Assassinio sull’Orient Express. Basti qui citare:

  1. la diffusione dei poteri di controllo sugli investimenti esteri (il c.d. golden power): occorre ora un nulla osta politico per le acquisizioni di società operanti nei più svariati settori, dalla produzione di gelati ai sensori per pneumatici; e non solo per contrastare le acquisizioni da parte di soggetti riferibili a potenze ostili ma anche per le operazioni con altre società europee;
  2. l’affermarsi generalizzato di una concezione “stakeholderista” delle società per azioni, che è difficilmente compatibile con la logica delle acquisizioni ostili;
  3. i dubbi sul fatto che i mercati facciano un buon lavoro quando si tratta di valutare le società altamente innovative con leader visionari, da cui la giustificazione per azioni a voto plurimo e maggiorato, che consentono di mantenere il controllo anche con una piccola quota del capitale.

Così, le opa ostili sono oggi, se non una specie in via di estinzione, un ospite mal sopportato: in Italia forse anche più che altrove, considerata la forte e inveterata tradizione bipartisan che vuole che siano le élite politiche a decidere chi controlla le grandi imprese.

DA TORINO AD AMSTERDAM, VIA DETROIT

Da ultimo, fino a pochi anni fa le grandi imprese erano tutte società per azioni regolate dalla legge italiana. Nel 2014, in occasione della fusione con Chrysler, le società della galassia FIAT aprirono la strada della migrazione in Olanda per godere della maggiore autonomia statutaria in tema di maggiorazione del voto, in ciò poi seguite da numerose altre società italiane.

Da qui i vari tentativi di inseguire l’Olanda sulla strada del rafforzamento dei poteri di controllo dei soci fondatori (o dei loro eredi), da ultimo con la legge sui capitali, che consente di maggiorare fino a dieci per azione i voti del socio che rimane tale per almeno dieci anni. Gli investitori istituzionali vedono come il fumo negli occhi le deviazioni dal principio un’azione, un voto: tanto è vero che negli Stati Uniti, dove esse sono diffuse, sono praticamente sconosciuti i casi di società già quotate che procedono in questa direzione. È prima della quotazione che società come ad es. Alphabet e Meta scelgono la strada del controllo rafforzato a favore dei fondatori. E così funzionerà in Germania con le nuove regole recentemente approvate, che ammettono le azioni a voto multiplo ma richiedono una delibera assembleare unanime, impossibile da ottenere in una società quotata.

In Italia, viceversa, complice il rischio di fuga in Olanda (che peraltro si potrebbe perlomeno arginare con norme migliori a tutela delle minoranze), si ammette la maggiorazione del voto con delibera dell’assemblea straordinaria e si concede il recesso solo in caso di passaggio da due voti per azione a favore del socio stabile a più di due, senza neppure prevedere che, dove già si è adottato il voto maggiorato, nella delibera di ulteriore maggiorazione spetti un solo voto a ciascun socio: così si consente all’azionista di controllo, che grazie al voto maggiorato dispone sempre di voti sufficienti per modificare lo statuto, di decidere da solo al riguardo. Questo è un buon esempio di come la concorrenza tra ordinamenti, se affrontata senza sufficiente ponderazione, può dare luogo a una corsa al ribasso incompatibile con l’obiettivo di rendere il mercato azionario italiano più attraente per gli investitori.

Insomma, il contesto in cui opereranno i tecnici del MEF non fa ben sperare circa gli esiti di questa riforma. Né, per inciso, lascia del tutto tranquilli la superficiale estemporaneità con cui il decisore politico, durante i lavori parlamentari sulla Legge Capitali, ha introdotto regole bizzarre in materia di elezione degli amministratori.

Un anno fa, fu facile prevedere che “il cammino parlamentare del [ddl capitali si sarebbe prestato] fin troppo alle incursioni delle lobby delle banche e delle imprese quotate. Queste potrebbero ad esempio spingere per ulteriori interventi a proprio vantaggio, quali la liberalizzazione della disciplina delle azioni a voto multiplo o maggiorato”. (L’intervento in materia di lista del consiglio è andato poi ben oltre le più fosche previsioni.) Fra un anno, siamo i primi a sperare che questo phastidioso pessimismo si riveli infondato.


Luca Enriques è Professor of Corporate Law all’Università di Oxford e, attualmente, Visiting Professor all’Università Bocconi. È stato Commissario Consob dal 2007 al 2012. Da dipendente della Banca d’Italia, nel 1997-98 collaborò con il Tesoro nella stesura del TUF.

Photo by Stefano Petroni on flickr – CC BY-NC-ND 2.0 DEED

Questo articolo è stato pubblicato qui

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