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Obama. Il premio Nobel per la pace si è pentito?

Un caso raro: un premio Nobel per la pace dichiara le sue colpe. Ma non tutte, naturalmente.

Io avevo a suo tempo commentato ironicamente l’assegnazione del Premio al presidente degli Stati Uniti in un articolo (Obama è in buona compagnia) che ricordava i molti personaggi poco raccomandabili che avevano ottenuto il premio, fin dai primi tempi, ma non erano molti quelli che avevano condiviso il mio giudizio severo. E nella sinistra non mancarono le aperture di fiducia al presidente.

Ora Barack Obama ha ottenuto sulla stampa mainstream di tutto il mondo nuovamente grandi elogi per avere ammesso di “aver sbagliato nel pianificare il giorno dopo di quella che credevo fosse la cosa giusta da fare intervenendo in Libia”. Cioè l’assassinio di Gheddafi.

In un’altra precedente occasione, alle Nazioni Unite nel settembre scorso, aveva detto che “la nostra coalizione poteva e avrebbe dovuto fare di più per riempire il vuoto”. Allora era sembrato che Obama volesse scaricare le maggiori responsabilità sulla Francia di Sarkozy e la Gran Bretagna di Cameron. Oggi la sua dichiarazione viene interpretata piuttosto come una blanda dissociazione da Hillary Clinton, che era allora segretario di Stato e accanita fautrice dell’intervento diretto. Probabilmente è vero, ed è per questo che Bernie Sanders ha ripreso la dichiarazione, mentre Hillary ha reagito subito rivendicando invece la giustezza delle sue posizioni di allora dicendo: “è facile giudicare in retrospettiva, parlare di sbagli, ma io so che abbiamo offerto molto aiuto, che i libici hanno avuto difficoltà ad accettare”. Bella faccia tosta, scaricare le colpe sui libici!

In questo dibattito, a nessuno viene in mente di obiettare che “l’errore” non era solo quello del “giorno dopo”. E, più semplicemente, di domandare che diritto ha il presidente degli Stati Uniti a decidere quel che si deve fare in paesi lontani migliaia di chilometri, e che non hanno fatto nulla per meritare bombardamenti e tutele.

Nessuno lo chiede, anche in Italia, perché la stessa domanda potrebbe essere fatta a chi nel nostro paese lavora per creare le condizioni per un intervento in Libia, “richiesto” da chi abbiamo messo momentaneamente in sella. Con quale diritto interveniamo? Con quale legittimità morale? Quella di un paese che sta ai primi posti nelle statistiche mondiali della corruzione?

Come si può pretendere di andare a portare ordine oltremare, quando ad ogni intercettazione come quelle di Potenza–Augusta-Taranto viene fuori un brulichio di conflitti tra ministri, lobbisti, gigolò, ammiragli, banchieri, tutti impegnati nella spartizione di un bottino estorto dalle tasche di lavoratori e pensionati e impiegato a finanziare flotte megalomani, imprese parassitarie e anche inutili e devastanti trivellazioni.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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