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Nepal: la fine di una rivoluzione

Ecco qui i rivoluzionari maoisti a spartirsi i soldi degli aiuti internazionali. La base e gli ex guerriglieri sono inferociti ed il paese anche.

Come spesso accade, ideali e buone intenzioni si perdono nella più semplice materia. Così sta finendo, nel nulla, la rivoluzione maoista in Nepal o, più modestamente, il tentativo di cambiare, in meglio, la classe dirigente di quel paese. Rispetto a qualche mese fa, l’ottimismo per una soluzione positiva è diminuito.

Il Partito maoista sta perdendo il controllo e la stima della sua base, perché “la dirigenza ci ha abbandonato, mette a posto parenti e amici ma scambia il destino degli ex-combattenti con benefici politici” - mi racconta Upendra (ufficiale del PLA-People Liberation Army). “I leaders sono diventati come gli altri politici, dedicati ai giochi di potere di Kathmandu e a spartirsi i soldi che erano stati destinati dai donatori internazionali agli ex- combattenti”.

E’ una storia vecchia che parte dalla cresta fatta sui soldi destinati ai campi di raccolta e che sta finendo su quelli per il reintegro sociale degli ex-combattenti. “Tutti i mesi i comandanti ci chiedevano una parte proporzionale dei nostri salari e poi ci hanno obbligato a versare una parte del contributo per il ritiro, ma che fine hanno fatto questi soldi?” - si domanda Upendra e migliaia di militanti.

Vediamo, intanto i numeri. Quando finì il conflitto iniziò il conteggio dei combattenti: nel 2007, secondo l’UNMIN, erano 32.250 (su questo numero sono stati quantificati i finanziamenti internazionali immensi per la gestione dei campi), nella seconda verifica sono diventati 23.610, infine 19.602. Quindi circa 12.000 sono stati considerati “disqualified combatants”, cioè non riconosciuti e allontanati dai campi. In parte erano furbacchioni che cercavano di scroccare qualche migliaio di rupie, ma nel gruppo vi era l’intera YCL (Youth Communist League) che ha continuato a protestare.

Un'ulteriore verifica effettuata dal Comitato Speciale formato dal Governo nepalese (l’unico che ha funzionato e ha portato risultati) ha ulteriormente ridotto il numero a 17.076. Di questo gruppo, in una prima fase, circa un mese orsono, 9.705 scelsero d’integrarsi nell’esercito regolare, oggi questo numero è sceso a 3.129. Le ragioni? Noi volevamo entrare nell’esercito per avere un lavoro, non per fare la rivoluzione, ma vogliamo essere riconosciuti per la nostra anzianità e i nostri gradi, abbiamo perso ogni speranza di cambiare questa società, visto come si sono comportati i nostri capi. In più”, continua Upendra, “pensiamo che ci avrebbero considerato soldati inferiori, perdenti a cui affidare i compiti più umili, senza riconoscimento dei gradi e delle posizioni”. Questa è, da sempre, la posizione dei duri all’interno del partito maoista (ormai separati in casa) e sta diventando l’opinione della maggioranza degli ex-guerriglieri. Poi, come sempre, entrano in ballo i soldi.

Il Partito chiede ai comandanti della PLA (People Liberation Army) circa euro 3, 4 milioni che sarebbero ancora nelle loro casse, raccolti con la tassazione dei militari e con i fondi affidati dai donatori internazionali per la gestione dei campi. Una situazione già sollevata, nei mesi scorsi, dai militanti e dal gruppo di Baidya che non ha avuto risposta perché, presumibilmente, questi soldi sono spariti nelle tasche dei dirigenti, comandanti e dei gruppi del partito. 

Nel passato, il partito, giocando sui numeri dei combattenti, si era già messo in tasca qualche centinaia di migliaia di euro. Baidya, Ram Bahadur Thapa e CP Gajurel (i maoisti duri) sono rimasti esclusi da questo ultimo traffico di soldi e continuano a richiedere spiegazioni, fino a minacciare la scissione (sembra un po’ la Lega Nord). Di positivo rimane che armi e depositi sono stati consegnati (ufficialmente) all’esercito regolare e i cantonments dove erano raccolti i guerriglieri sono in fase di chiusura.

Il dato di fatto più preoccupante è che il partito sta perdendo il controllo politico e organizzativo di una grande parte dei combattenti (oltre che della base), sfiduciati, disillusi e incazzati e delle migliaia di ex guerriglieri (nel pasticcio fatto dall’UNMIN) non riconosciuti. I fondi stanziati per il ritiro volontario, a cui hanno optato la maggioranza dei guerriglieri, sono insufficienti e il reintegro dei combattenti nella società difficile.

Parte del malcontento può essere intercettato dai duri del partito (o del nuovo partito che questi, probabilmente, formeranno); ma, come già accaduto in questi mesi, c’è chi, fra i vecchi combattenti, ha messo su bande di rapinatori, contrabbandieri di legno pregiato, taglieggiatori vari (quando girano troppe armi se ne trovano sempre). Tre ex maoisti sono stati arrestati con bombe destinate ad obiettivi nella capitale, altri minacciano rivolte. Il rischio è un ulteriore peggioramento della sicurezza e nuovi conflitti politici e sociali.

Intanto, dove tutto era iniziato quasi 15 anni or sono, nella Repubblica maoista del Rolpa (Nepal centro-occidentale) niente è cambiato, mi racconta un amico giornalista nepalese che vi è stato nei mesi passati. Stessa povertà, stessa mancanza di servizi; solo, per fortuna, è finita la paura e le minacce (di esercito e maoisti). L’unica novità è l’intenzione di creare una specie di museo della Guerra Popolare a Holeri, dove nel 1996 fu attaccato il posto di polizia, evento considerato l’inizio della” Rivoluzione”. All’interno armi e fotografie ed un monumento ricorderebbe i morti, saggiamente, di entrambe le parti.

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