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Mafia Capitale: cosa rimane della democrazia

Mafia Capitale, atto secondo.
C'è qualcosa di disarmante, di disperato, qualcosa che ricorda i sussulti di un'agonia nella ritmica ossessiva con cui la tragedia della corruzione viene alla luce in Italia. Come se, dopo ogni spasmo, ogni tremore, ci aspettassimo finalmente una quiete, un infinito silenzio, una pace che non arriva mai. Come sangue dai polmoni di un tubercolotico, ad ogni contrazione, ad ogni rantolo, esce gorgogliante la schiuma malata: "non è niente" subito qualcuno si affretta a sussurrare, forse sentendosi in dovere di affastellare qualche parola, a contraltare di un'evidenza che non ha bisogno di spiegazioni.
A cosa servono le spiegazioni, se ogni volta abbiamo lasciato correre, minimizzato, dimenticato?
Abbiamo dimenticato, si. Abbiamo dimenticato tante cose. Abbiamo dimenticato che cosa significhi valutare l'operato di qualcuno che ricopre una carica pubblica prima di tutto dall'onestà, dalla fermezza, dal rigore; prima che dal suo aspetto fisico, dalla sua retorica, dalla sua “simpatia”.
Abbiamo dimenticato l'esercizio della democrazia, la fatica di impegnarsi in prima persona, la complessità del valutare le scelte soppesando le conseguenze. Abbiamo dimenticato, scandalo dopo scandalo. Abbiamo smesso, noi come cittadini e la politica di conseguenza, di svolgere il nostro ruolo, di esercitare quel potere del popolo che è il significato semplice e profondo della democrazia.
Cosa rimane, della democrazia? Rimane poco più della gabbia retorica di populisti e imbonitori di folle, capaci solo di suonare il flauto mentre la disuguaglianza scava un fossato incolmabile fra il mondo dei morti e nuove oligarchie. Ma noi cittadini siamo i primi ad aver indebolito la democrazia togliendo valore alla politica, sminuendone le funzioni attraverso lo smantellamento di qualsiasi valore di riferimento, chiedendo ad essa nient'altro che il minimo indispensabile per garantire la tutela di interessi particolari, dei nostri piccoli orticelli. Un incentivo, una tassa un po' più bassa. Dimenticando che per noi, i deboli, la tutela dell'interesse collettivo è l'unica arma abbastanza forte da opporre a chi vuole fare della legge un inutile orpello, un laccio da tagliare; a chi costruisce sulla crisi, che è identitaria prima che economica, un potere di pochi, in parte sotterraneo e criminale, in parte alla luce del sole.
Se fossimo coscienti del valore della politica non ci troveremmo di fronte schiere di qualunquisti di successo, che ripetono ossessivamente slogan, senza coscienza, senza discernimento, senza analisi, senza critica, in ogni contesto pubblico utile, da Facebook ai telegiornali, frammentando ogni ambito del dibattito in una sequela incoerente di urla, disposti a tutto per avere una vetrina su cui costruire consenso. La scena politica è invasa da meteore da televoto, primedonne per qualche mese, investite - dal disorientamento e dal bisogno di appigli - di eccezionali virtù e salvifica missione.
Un consenso di immagine, fulmineo nell'ascesa come nel crollo: a nessun primo attore si nega una fiammata di consenso.

La riduzione della politica alla costruzione di un consenso strutturato sempre più sull'immagine estemporanea piuttosto che sulla valutazione dell'azione politica e dei suoi risultati è all'origine della devastazione che oggi vive l'Italia. Eppure siamo un Paese dal grande passato, come non si perde occasione di ricordare, stucchevolmente, con la boria dei rampolli di buona famiglia che esibiscono titoli mentre razzolano nella melma, cullandosi sugli allori che altri, in un tempo lontano, hanno guadagnato.
Piuttosto che ringalluzzirsi per essere eredi di una grande storia, con citazioni nazionalpopolari sul Rinascimento, dovremmo occuparci di costruire un presente, e un futuro, che ne sia almeno vagamente degno. Perché l'attuale declino è decennale, non servirà a nasconderlo una battuta o l'ennesimo annuncio del cambiamento in dirittura d'arrivo.


Roma è il simbolo del degrado civile che lascia la cosa pubblica nelle mani di poteri informali, degli avvoltoi. L'inchiesta Mafia Capitale ha dissotterrato l'ultimo anello di una catena di corruzioni e ruberie di ogni genere che in anni recenti hanno colpito tutti i centri nevralgici del potere in Italia, tutti i grandi appalti: dal MOSE alla ricostruzione dopo il terremoto dell'Aquila, dalla TAV a Firenze al Ponte sullo Stretto in trentennale gestazione, dall'Expo alle Olimpiadi di nuoto a Roma, dai fondi strutturali europei alle eterne, cicliche emergenze.
Mafia Capitale simboleggia questo stato di decadenza da basso impero, che non ha (davvero) sorpreso nessuno, ma che ha improvvisamente occupato titoli di prima, infiammato gli animi, destato verginità nascoste, solleticato velleità di rivalsa nei tanti, troppi, che hanno osato commentare senza provare vergogna. Vergogna, perché un Paese che ha bisogno della magistratura per avere la forza di portare alla luce sistemi corruttivi diffusi e strutturati al punto tale da essere definiti di stampo mafioso è un Paese in cui la Politica, l'arte della politica, è morta: sepolta sotto interessi, ricatti, compromessi sottobanco, correnti di partito, spartizioni di ricchezze pubbliche in mani private, indegne, eppure strette da chi dovrebbe rappresentare l'interesse collettivo. 
Una rete corruttiva così forte, così radicata, così agevolata da rapporti di collaborazione con esponenti politici di primo piano da essere perfettamente in grado di proseguire nella propria opera di sottrazione di risorse pubbliche e di contaminazione delle strutture amministrative anche in presenza di un Sindaco, Ignazio Marino, non disposto a riprodurre queste dinamiche. Marino “il marziano”, estraneo alle logiche di gestione del potere romano, conteso alla parte sana degli organi democratici da palazzinari, affaristi, criminali e altro genere di ambienti di sottobosco. Il marziano, appunto, definito con il disprezzo dei papponi incravattati, dei navigati, degli autorevoli e ambigui personaggi che pullulano nella politica del Belpaese, procacciatori di voti e di agganci, prodighi di consigli, dispensatori di esperienze e di pacche sulle spalle dai molteplici significati.
Oggi, dinanzi alle richieste di dimissioni del M5S, dei leghisti e della destra, il Partito Democratico si stringe - ufficialmente - intorno a Marino, uscito pulito dall'inchiesta che ha colpito trasversalmente il mondo politico romano, destra neofascista e sinistra di governo, amministratori, lo stesso ex Sindaco Alemanno, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Ma, fino a poco tempo fa, Marino aveva subìto un martellamento incessante di attacchi mediatici sostanzialmente avallati dal suo PD, culminati nel novembre scorso con le pressioni perché si dimettesse per lo "scandalo della Panda rossa", una vicenda così palesemente pretestuosa da risultare farsesca. Marino era stato massacrato, appena eletto, per la pedonalizzazione di Via dei Fori Imperiali, quando simili scelte a Firenze avevano messo Renzi sul piedistallo dell'innovatore trasversale e illuminato. E' stato nell'occhio del ciclone per la vicenda delle trascrizioni in Comune dei matrimoni contratti all'estero fra persone dello stesso sesso, una battaglia sacrosanta, in linea con quanto espresso dalla Corte Costituzionale e dall'Europa (mentre è il Governo, qui, ad essere del tutto inadempiente). E' stato oggetto di violente contestazioni a Tor Sapienza, alimentate da un clima di guerra fra poveri e di razzismo strisciante verso “gli immigrati”, rimbalzate con grande eco su tutti i media nazionali, con malcelata soddisfazione di molti suoi compagni di partito, compresi leader nazionali.
Ecco, ci si potrebbe chiedere se questa concatenazione di eventi sia casuale: se sia casuale che uno dei giornali che ha maggiormente attaccato Marino sia "Il Messaggero", la cui proprietà è prevalentemente in capo al costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, deus ex machina di molte vicende romane, forse infastidito dal marziano Marino e dalla sua volontà di mutare i consolidati equilibri di potere che gravitano attorno al mattone, dai grandi appalti per la linea C della metro, alla gestione del patrimonio immobiliare del Comune.
Ci si potrebbe chiedere se sia un caso che chi ha dato il via allo "scandalo Panda rossa" sia il senatore NCD Andrea Augello, esponente assai vicino ad Alemanno, di cui curo' l'organizzazione della campagna elettorale 2009, poi vinta, contro Rutelli. Se sia un caso che Marino sia stato - prima dell'inchiesta Mafia Capitale - ferocemente avversato da molti esponenti del suo stesso partito, quel PD colto di sorpresa dalla sua vittoria alle primarie e risultato oggi colluso (in parte?) con il sistema di potere criminale emerso. Se sia un caso che una persona come Marino sia chiamato marziano per aver cercato di governare una città complessa come Roma in modo normale e pacato, imponendo il primato della politica sugli interessi sotterranei, sulla spartizione clientelare; iniziando a toccare quegli opachi interessi privati, quell'area grigia che sconfina nella politica e nel suo stesso partito fino a coinvolgere chi lo affianca.

Ecco, Roma è davvero il simbolo di un Paese che non riesce a credere di poter essere normale, di fare della normalità la sua grandezza, la sua via d'uscita. Non riesce ad esserlo perché troppi interessi, troppe collusioni, remano contro. Normalità significa legge, significa accettare un insieme di regole, significa non poter sfruttare la logica dell'emergenza come leva per derogare a tutto, perfino ai diritti, al rispetto dell'uomo: ricordate le risate dei palazzinari, la notte del terremoto dell'Aquila? Normalità significa non poter sfruttare le onde emotive, la rabbia delle folle, i sussulti di una crisi da utilizzare come generatrice di consensi.
Per tutto questo, Ignazio Marino è davvero un marziano: perché tenta di fare di Roma una città normale, europea. Per questo, a Roma come dietro ogni ombra che si allunga su questo Paese, sentiremo sempre fare della calunnia, della falsità, l'arma con la quale convincerci che la normalità non esiste, che quello i mafiosi fanno in grande tutti lo fanno nel loro piccolo.
E invece, la normalità non solo in Italia è possibile, ma è necessaria: è il traguardo di una democrazia matura, credere semplicemente nei propri mezzi, trasferire nella realtà il concetto astratto, lontano, che "il potere si esercita nel nome del popolo", con “dignità e onore”. Sta al primato della politica imporsi sui gruppi di pressione sotterranei, tagliare alla radice gli scandali.
Ipocrita sorprendersi e condannare ogni volta: tutti sappiamo che la causa è strutturale, lo prova la frequenza dei sintomi. La democrazia come sistema di governo è in crisi, fragilizzata dalle incursioni di poteri paralleli, legittimati dagli stessi leader politici che ne riconoscono l'autorità, trattano con essi condizioni e accordi, definiscono scelte politiche seduti attorno a privatissimi caminetti.
Sta alla politica eliminare questi caminetti e riportare le decisioni nelle opportune sedi, talmente svuotate dall'interno, private delle proprie funzioni, da fare della democrazia rappresentativa un guscio vuoto, una corte di sciacalli. A noi la responsabilità di rendere la politica migliore e la democrazia più sostanziale: è difficile, ma possibile.

Foto: Wikimedia ("Ignazio Marino - Festivaletteratura 2012 01" di Niccolò Caranti - Opera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons - http://commons.wikimedia.org/wiki/F...)

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