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Le parole contro Saviano

Le parole contro Saviano

La mano sotto al mento e gli occhi rivolti altrove, lontano; oppure la sinistra che giocherella con l’anello della destra, l’indice continuamente portato al naso, il gesticolare tipico di chi è cresciuto al sud e ha bisogno di usare l’intero corpo per comunicare, la calma nel discorrere e la voce che a volte sembra rompersi dalla rabbia, per colpa di quello che si sta raccontando, il viso giovane e già segnato dalle responsabilità di un libro e una vita “da adulti” ci donano la vera distanza tra quello che realmente è Saviano e il savianismo, ovvero quella deriva, quel contenitore in cui è incluso tutto ciò che ruota attorno all’autore di Gomorra (mitizzazioni comprese) e che spesso con la persona ha poco a che fare. Osannato da una parte e criticato ferocemente dall’altra, cosa quasi ovvia per chi diventa suo malgrado un simbolo, Roberto Saviano, ormai lo sappiamo tutti, è, in questo momento, il simbolo di chi contro la mafia non sta in silenzio. Ma, parafrasando Totò, simbolo si nasce o si diventa? Spesso lo si diventa, ed è un’etichetta che se in alcuni casi ti tutela, in altri ti espone a critiche che spesso più che al simbolo sono rivolte alla creazione, alla nascita e a tutto ciò che gira attorno a quella parola.

Proprio nelle scorse settimane lo scrittore è stato al centro dell’attenzione, ma non per l’uscita dell’attesissimo secondo libro (quello in studio, diremmo, se parlassimo di album musicali), bensì per un’uscita infelice del Presidente del Consiglio, il quale parlando di mafia ha detto che questa avrebbe avuto “un supporto promozionale che l’ha portata ad essere un fatto di giudizio molto negativo per il nostro Paese. Ricordiamoci le otto serie della Piovra, programmate dalle televisioni di 160 Paesi nel mondo, e tutto il resto, tutta la letteratura, il supporto culturale, Gomorra e tutto il resto”; dichiarazione seguita a ruota dal direttore del Tg4 Emilio Fede che si è scagliato, per l’ennesima volta, contro lo scrittore campano, colpevole quasi di non essere morto, e quindi, paradossalmente, di non avere diritto di parola: “Ci sono state polemiche anche su Roberto Saviano. – dice Fede - Sempre lui. Ma non è lui che ha scoperto la lotta alla camorra, non è lui il solo che l’ha denunciata, ci sono registi e giornalisti come lui... e che sono morti. Lui invece è ancora protetto, superprotetto”.

“La morte, così, diventa la garanzia che ciò che hai detto e fatto è vero, o quantomeno che ci hai creduto fino in fondo”: sembrerebbe la risposta a caldo dello scrittore Mondadori, ma non è così. È una frase tratta da “La parola contro la Camorra” resoconto Einaudi dell’intervento di Saviano a “Che tempo che fa” più un testo letto dallo stesso Saviano che dà il titolo all’opera. È una frase, quella, che si riferiva a Don Peppino Diana, parroco di Casal di Principe ucciso dalla camorra, ma che ben si adatta al clima che si respira attorno allo scrittore campano.

Insomma una figura, quella di Saviano che non trova unanimità, cosa nota sin dall’uscita del caso editoriale di questi ultimi anni. Collaboratore fisso di Repubblica e critico a volte con alcune proposte del Governo, benché abbia avuto spesso buone parole per il lavoro del Ministro degli Interni, il leghista Maroni, Saviano si porta appresso per la destra quel peccato originale che è scrivere per il giornale di De Benedetti o criticare alcune scelte del Governo; ma non è che a sinistra la situazione sia migliore. Essere tirato per la giacchetta ad ogni tornata elettorale, cercando di appiccicare a Saviano lo stemma di un partito, non è l’atteggiamento più responsabile che possa tenere la sinistra italiana, accecata dal sentire a volte criticare il Governo da parte di un personaggio che sembra giustamente volersi tenere equidistante da qualsiasi inciampo politico, come sottolinea anche in un’intervista uscita questa settimana sull’Espresso in cui il giornalista chiede se la salita sul palco di piazza del Popolo in difesa della libertà di stampa non sia stata una scelta politica: “Sì, - risponde lo scrittore - ma nel senso platonico del termine: la politica come arte pubblica, non come purtroppo la considerano gli italiani ossia la spartizione della torta”.

La contraddizione che attornia Saviano si ripercuote anche sull’accoglienza, anch’essa contraddittoria, di quest’ultimo libro/dvd Einaudi, stretto tra chi lo vede come semplice operazione di marketing e chi invece ne sottolinea l’importanza di cristallizzare su carta una delle battaglie che Saviano porta avanti sin dalla prima ora - da quando ragazzo poco più che 25enne fu invitato dagli organizzatori della rivista on line Nazione Indiana, di cui Saviano è tutt’ora redattore, all’incontro “Giornalismo e Verità” - ovvero quella dei messaggi trasversali trasportati dall’inchiostro dei quotidiani locali. Da una sala milanese, quindi, a uno degli studi più importanti della tv italiana, quello di ‘Che Tempo che fa’ che periodicamente lo accoglie per far sì che la meraviglia di cui parla Schiavone in un’intervista rilasciata a Il Tempo, quella che bisogna aspettare che passi per colpire Saviano, non passi mai. E’ lì che l’autore di Gomorra legge e mostra i titoli e gli articoli dei quotidiani locali. Il libro è arricchito anche da quattro introduzioni: quella di Walter Siti che capovolge l’accusa di presenzialismo che a volte gli si lancia, definendola “conquista”, una conquista della presenza che si materializza nella trasmissione di Fazio nel “corpo di Saviano (...) dove contano le pause, le impuntature, le commozioni a stento trattenute – e le foto proiettate (...)”; di Aldo Grasso, anch’egli preso da questa conquista della presenza, di questo ragazzo (prima che scrittore) che vive perché i libri e la televisione gli permettono una visibilità che la camorra vorrebbe negargli”; poi c’è Paolo Fabbri che spiega come “Saviano ci forza a non chiudere gli occhi (...) le orecchie e a non turarci il naso” e che “si arrovella per spiegare ai giovani (...) che c’è un’alternativa: la felicità”; infine un tributo gli è stato dato da Benedetta Tobagi che fa scoprire all’anziana vicina la forza di Gomorra. Grande assente è uno dei miti letterari dello scrittore campano, ovvero quel Vincenzo Consolo che ha rifiutato la prefazione, sembra, per protesta contro le dichiarazioni d’amore letterarie dello stesso Saviano nei confronti di autori, quali Céline e Pound, ritenuti troppo vicini alla destra. Insomma sembra che non ne vada mai una bene.

A chi gli si scaglia contro, anzi a chi lo fa senza entrare nel merito, comunque, Saviano, sempre nell’intervista all’Espresso, risponde che alla fine “quando si satura il mercato del parlare bene conviene parlare male, ma non di Saviano, di chiunque”, insomma una moda che va e viene, ma di cui fortunatamente rimane la traccia profonda impressa da Gomorra.

E c’è anche chi spara alto. Dario Fo, infatti, ha proposto, giovedì, in un’intervista a Il Fatto quotidiano, di dare il premio Nobel proprio allo scrittore di Casale: “Non dovrei dirlo, ma a questo punto, bisogna mettere giù le carte: ho scritto una lettera piuttosto vasta, dando indicazioni e ho mandato pure i suoi libri a Stoccolma”; chissà se è una reale volontà di conferire un premio (anch’esso) simbolico o una provocazione che sarebbe una risposta notevole proprio alle parole del premier. O chissà che non sia una risposta alle recensioni che stanno uscendo in questi giorni a un saggio critico di Alessandro dal Lago che noi, onestamente, non abbiamo ancora letto, nei confronti del best seller mondadoriano. Noi non l’abbiamo letto, dicevamo, ma ne abbiamo letto le recensioni fatte da diversi quotidiani. Su una cosa però si può discutere, ovvero quel titolo: “Eroi di carta”. Nelle condizioni in cui siamo, ovvero quelle di non avere una visione completa sull’opera di Dal Lago – che potrebbe essere il miglior libro degli ultimi 150 anni - ci permettiamo solo di avere dubbi su quel titolo, forte e volutamente provocatorio. Era proprio indispensabile? Ci mancherebbe che non si possa criticare Saviano, la sua scrittura, i contenuti (sempre che non sia un per sentito dire o lo stantìo “lo sapevano tutti”), ma quel titolo sa di critica alla persona, come se veramente un ragazzo di 25 anni (30 oggi) abbia preferito costruirsi un’aura “da eroe” a scapito della propria vita.

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