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La Questione Maschile come questione politica (prima parte)

 
Il grande polverone mediatico sollevato di recente dal noto articolo di Massimo Fini su "Il Fatto", la crescente visibilità anche televisiva di ingiustizie giuridiche consumate in danno di padri separati ed altri contributi editoriali non privi di risonanza pubblica stanno a documentare come la "questione maschile" (brevemente QM) stia cominciando a filtrare, quale argomento di cultura politica, anche in sedi più ampie di quelle ristrette cerchie internettiane dove, normalmente, questa espressione ricorre ormai da diverso tempo.
 
Ma cosa si intende per questione maschile?

Darne una definizione sintetica potrebbe rivelarsi semplificatorio e riduttivo, trattandosi di una fenomenologia che investe sfere molto ampie della vita associata e di quella individuale.

Tuttavia, una definizione si rende quanto mai opportuna e va tentata.

Limitarsi ad identificare la QM nel fenomeno della misandria - ossia dell’ostilità pregiudiziale verso il "maschio" - che si registra sul piano dei comportamenti diffusi, nella prassi giudiziaria e nei conseguenti effetti sociali non consentirebbe di cogliere le cause profonde del problema; la misandria è, in altre parole, la punta di un iceberg rispetto al quale l’interrogativo che rimane irrisolto è : "cosa la rende possibile nei modelli culturali del mondo occidentale che, per statuto, nega legittimità ad ogni altra forma di discriminazione ideologica, tranne questa?".

Indubbiamente, sul piano politico-filosofico il femminismo, con la sua critica al "dominio maschile" e con la sua interpretazione della storia come storia di oppressione delle donne, ha posto le basi per un antagonismo femminile materialmente "vissuto" che ha assunto, rapidamente, il senso di una critica tout court verso il "maschio", il suo sistema simbolico ed il suo valore umano.

Eppure questo dato irrefutabile ancora non spiega come mai un movimento sostanzialmente di nicchia - sono davvero poche le donne che si dichiarano apertamente femministe e molte, invece, quelle che ne condannano gli eccessi - sia riuscito a fare del proprio messaggio un fattore di condizionamento delle culture politiche, tanto da essere stato assimilato nel "sentire comune" in modo pressoché acritico.

Forse, allora, le radici del problema sono ancora più in profondità.

Ad una riflessione più generale, le concezioni politiche che si sono andate affermando in questi primi anni del terzo millennio hanno continuato gradualmente a spostare il fulcro della propria attenzione, l’oggetto del contendere politico generale, dall’economia all’etica, dal pubblico al privato, dalla politics alla policy, dalla comunità all’individuo, proseguendo una tendenza già avviata, negli anni del c.d. "riflusso", dall’individualismo esasperato dell’io radicale e dai valori edonistici della c.d. "società debole".

I temi della "biopolitica", le questioni di coscienza, la critica all’anomia morale della finanza e le contrapposizioni via via più aspre tra fede e laicismo - per non parlare di quegli atteggiamenti di militanza imbevuti sempre più spesso di indignazioni etiche, piuttosto che di rivendicazioni sociali definite - ricorrono con sempre maggiore frequenza nei dibattiti pubblici mentre, contestualmente, sempre minore attenzione viene posta ai paradigmi classici dell’economicismo materialista con i quali, da Marx in avanti, si è solitamente descritta l’evoluzione della società; la globalizzazione avrebbe, in effetti, reso anacronistica la tradizionale critica al modello di sviluppo economico, aprendo la strada ad altre forme di aspirazioni soggettive e di conflittualità sociali.

La politica, insomma, starebbe cambiando i propri obiettivi.

Riducendo al massimo la complessità delle filosofie politiche da cui questi fenomeni traggono forza e movimento, si potrebbe dire che le ormai antiche contrapposizioni tra detentori di privilegi materiali ed esclusi hanno ceduto il passo a nuove forme di contrapposizione, di grande coinvolgimento emotivo per l’opinione pubblica, nelle quali la posta in gioco non è più - o non tanto - il potere materiale, quanto, piuttosto, il potere morale.

Ma è veramente così?

Possiamo abbozzare una risposta se tentiamo di risalire al momento in cui alcune forze ideologiche - quelle miranti alla realizzazione della "società perfetta" - hanno modificato il proprio ruolo trasformandolo da progetto di governo della società a progetto di governo delle coscienze individuali.

L’impegno politico diventerà, in questa luce, affermazione di valori universalistici - calati dall’alto - a cui il popolo deve essere "educato".

Sino ad un dato momento storico, che possiamo riconoscere nella rivoluzione culturale del ’68, quantomeno nel nostro Paese, la competenza in materia morale - la definizione condivisa del bene e del male - è affidata alla dimensione religiosa ed, in essa, il governo delle coscienze è demandato alla visione escatologica della Chiesa.

Più delle sanzioni della giustizia umana (e parallelamente ad esse, che ne mutuano il senso nell’ottica sociale) è il senso di colpa lo strumento psicologico di questa amministrazione delle coscienze che, tuttavia, non mira alla realizzazione dell’individuo perfetto, né della società perfetta, ma solo a dettare le regole della vita "grata a Dio" in prospettiva ultraterrena; modelli etici che, peraltro, anche sul piano sociale consentono una convivenza pacifica ed ordinata, benché in qualche misura repressa sul piano istintuale.

Inoltre, a differenza di quanto avveniva per il calvinismo (come ci ha insegnato M. Weber), i comportamenti "in odore di santità" sono solo un focus a cui tendere per il singolo cattolico, in quanto neanche la Chiesa ignora o nega le umane imperfezioni, tanto da prevedere il perdono della "Confessione" o, addirittura, il semplice pentimento, anche dell’ultimo istante di vita, per la redenzione di un’intera vita di peccati (o di incapacità operosa).

Con il sessantotto la critica alla moralità tradizionale di origine religiosa ed a tutto ciò che ad essa si ricollega sul piano sociale (famiglia, ruoli, merito, gerarchie) diventa occasione per una rifondazione dell’etica su basi antagonistiche.

Come ogni movimento rivoluzionario, anche il ’68 mirava ad una trasformazione radicale dei rapporti sociali, nel senso di un ribaltamento puro e semplice del passato e dell’ordine sociale, ma la sua specificità storica sta, in misura particolare, nel fatto che esso trasferisce la rivoluzione dalla politica alla cultura, negando a quest’ultima ogni forma di legittimità in quanto cultura delle classi dominanti.

Tutto ciò che è espressione delle culture tradizionali deve essere rovesciato nel suo contrario; emancipazione, la parola chiave del nuovo paradigma antropologico, significa, innanzitutto, negazione di qualunque validità al sistema di valori allora vigente, una "grande marcia" utopica verso l’emancipazione dal passato, dalla religione, dai pregiudizi, dal consumismo.

Come è stato già scritto...."Il ’68 contrappone in un modo totale la trasparenza del sociale al feticismo dell’economico, del politico e del legale. Il profitto, la ragion di Stato e l’apparato della legge subordinano a sé ogni istanza che nasce dalla comunità, dalla comunicazione, dall’autocoscienza. Il centro del sociale è la critica delle ideologie che svela l’inganno con cui l’economia, la politica e la legalità vogliono imporsi come «verità oggettive, impersonali, necessarie».

L’esempio più evidente dell’estremismo con cui il ‘68 oppone la trasparenza del sociale a tutte le forme del feticismo è il concetto sessantottesco di malattia mentale incarnato nella legge 180. Il malato di mente, l’operaio, la donna, devono «diventare protagonisti della trasformazione sociale e quindi della loro liberazione». Ogni condizione umana distorta è costruita in un processo distorto di comunicazione sociale camuffato come «naturale». Ogni condizione umana è perciò modificabile attraverso un rifiuto di farsi imporre un’identità distorta da una comunicazione distorta. Curare vuol dire far riconoscere al malato il legame tra la sua condizione di sofferenza e la distorsione della comunicazione, l’opacità sociale di cui è vittima. Solo una «rivoluzione sociale» può liberare il malato dai suoi sintomi.

Gianini Belotti mostrava nel libro "Dalla parte delle bambine" come anche la differenza maschio-femmina è un prodotto dei modelli distorti di comunicazione sociale interiorizzati e istituzionalizzati in tutta la società. La rivoluzione sociale consiste nello svelare i modelli distorti di apprendimento sociale dietro ogni diseguaglianza tra gli uomini. Così finalmente «si potrà spezzare la catena di condizionamenti che si trasmette pressoché immutata da una generazione all’altra».

La «Grande marcia» verso il predominio del sociale su tutti gli altri aspetti della vita è il kitsch della sinistra."

Rivisitando la storia come storia di oppressione simbolica, la critica al modello di sviluppo - da cui siamo partiti - acquisisce rapidamente il senso di una critica radicale al modello di trasmissione della cultura, di apprendimento e di elaborazione del pensiero.

L’identità personale non è più, secondo questo mutamento di prospettiva, un dato naturale che scaturisce spontaneamente dal corredo biologico, da quello genetico e dalle diversità in essi radicate; l’individuo diventa una costruzione socio-culturale nella quale i condizionamenti a cui esso è sottoposto dall’educazione possono essere modificati in modo consapevole da altri condizionamenti di segno differente e contrario.

 

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