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La Banda B&B e la "separazione delle carriere"

I lexocleptici - spero vi piaccia il neologismo; significa, appunto, ladri di parole - della banda B&B continuano a rubarci parole e concetti: la "separazione delle carriere" è uno degli ultimi, e più pregiati, pezzi del loro bottino.

Nel suo caso, più ancora che per "federalismo", "presidenzialismo" e tutti gli altri termini che ci hanno sottratto, non dobbiamo reagire al furto disprezzando quel che abbiamo perduto; quel che dobbiamo fare è comprendere se ed entro che limiti questa idea ci possa ancora appartenere.

Ho sempre trovato preoccupante, per il cittadino che finisca nei guai con la giustizia, il fatto che la magistratura inquirente e quella giudicante siano, nonostante i correttivi che qualcuno cercò a suo tempo di spiegarmi, così strettamente connesse come lo sono ora.

Non sto lanciando accuse né dicendo che il sistema attuale sia marcio, si badi bene, come pure non credo affatto che la riforma della giustizia abbia ragione d’essere, nell’attuale congiuntura, al centro dell’attenzione del governo, ma credo anche che sia indubitabile che separare, tanto quanto dovrebbero esserlo le loro funzioni, le carriere di giudici ed inquirenti rappresenti una garanzia in più dell’equanimità delle sentenze.

Va benissimo, dunque, la “separazione delle carriere”, e di quell’idea possiamo riappropriarci.

Il pericolo è che l’esecutivo meno liberale della nostra storia approfitti di questa riforma per farne passare altre assai meno sacrosante.

La “separazione” può, e io penso debba, essere vista positivamente solo se la magistratura inquirente ed il suo C.S.M continueranno a godere della più totale e completa autonomia.

Se non fosse così verrebbe meno il principio fondamentale della separazione dei poteri, già gravemente compromesso dall’esautorazione del Parlamento cui ha portato l’attuale legge elettorale, e la porta verso una dittatura governamentale, già socchiusa, sarebbe spalancata.

Si tenga presente che, già nell’Italia post-unitaria, la magistratura inquirente era sottoposta al Ministro della Giustizia (un bell'articolo di Ugo di Girolamo ne trattava su questo giornale) e che a tale subalternità nei confronti della politica, durata di fatto fino al 1958 quando nacque il primo CSM, e al timore reverenziale dei giudici nei confronti dei politici, durato perlomeno un altro decennio, si deve tanto del malcostume, del clientelismo e della corruzione che hanno inquinato, fin dalle origini, la nostra vita pubblica.

Gli illiberali d’oggi vorrebbero che il governo - o il parlamento che ha perduto ormai, rispetto al governo stesso, ogni autonomia - indicasse alla magistratura inquirente le priorità della sua azione.

E’ chiaro a tutti - beh, forse a chi crede che Ruby sia la nipote di Mubarak, magari no - cosa questo vorrebbe dire: vi sarebbero reati da perseguire, quelli commessi dai disperati, magari sull’onda di uno sdegno popolare montato ad arte dai media e altri reati, quelli commessi dalla casta, cui non dedicare troppa attenzione perché “socialmente non pericolosi”.

I giudici, detto altrimenti, sarebbero invitati a ficcare in galera adolescenti con un po’ di marijuana in tasca e a lasciar fare gli amministratori corrotti.

Non sarebbe il caso di strapparsi i capelli se dovessero essere separate le carriere di magistrati inquirenti e giudicanti; si dovrebbe andare immediatamente nelle piazze, tutti quanti e senza distinzione di parte, se, approfittando della “separazione delle carriere”, si volesse introdurre una qualunque forma di controllo, o anche di semplice “influenza”, del potere politico nei confronti di quello giudiziario.

 Sarebbe l’ultimo passo, dopo i tanti già compiuti, verso un regime.

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