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L’Innocenza di Maristella la solidale

Il Ministro della Pubblica Istruzione, Maristella Gelmini, si dichiara solidale con i precari che, grazie ai provvedimenti da lei adottati, perderanno il propio posto di lavoro. C’è chi l’accusa d’essere ipocrita, ma lei, poveretta, non ha colpe.

Povera Maristella. Messa, chissà perché, a fare un lavoro nettamente al di sopra delle proprie possibilità, è spesso chiamata a rispondere delle proprie affermazioni da un’opposizione che si ostina a considerarla un ministro vero.

 

Ecco la dimostrazione dell’incapacità della sinistra di uscire da un’anacronistica visione del Paese; come si può pensare che nella nuova Italia berlusconiana un ministro, donna per di più, possa permettersi di fare alcunché di testa propria? Maristella è ministro, ma solo di nome; in realtà lei deve solo mettere quel suo bel faccino puntuto davanti le telecamere e la propria firma sotto i provvedimenti del suo ministero: capire quel che firma non le è richiesto e tanto meno deve essere d’accordo con quel che dice. Basta che dica e firmi quel che deve, disciplinatamente, da brava scolaretta.

I tagli alla scuola pubblica non nascono dunque dalla sua testolina e, ci potete scommettere, da brava ragazza qual è, gli dispiace davvero per il triste destino dei precari che si troveranno improvvisamente senza lavoro; se solo ci potesse fare qualcosa, statene certi, lo farebbe.

Ad imporre questi tagli, per i quali si incolpa quel cattivone di Giulietto "il ragioniere" Tremonti, non sono certo solo le necessità di bilancio; a queste si potrebbe provvedere agendo altrove - dalle auto blu alla spesa sanitaria della regione Sicilia sono infiniti i tagli che si potrebbero e dovrebbero fare prima di toccare la scuola - e, orrore, che banalità, facendo pagare le tasse a chi non lo fa.

I tagli alla pubblica istruzione sono, prima d’ogni altra cosa, funzionali alla visione della società che hanno Berlusconi ed i suoi colonnelli.

Il Berlusconismo ha una base ideologica, al di là della fedeltà al Capo e al totale asservimento della politica ai suoi interessi; tale base è una visione semplificata e ridotta del reaganismo.

Un reaganismo degli straccioni rimodellato, per le proprie esigenze di conservazione, da una classe dirigente, fatta già di figli di ed amici di, che è perfettamente felice dentro ad uno dei paesi più ingiusti e con minor mobilità sociale del mondo che un tempo chiamavamo occidentale.

La scuola pubblica, perché sia elemento di conservazione e non motore di trasformazione della società, deve essere depotenziata; suo scopo non è, in questa visione del mondo, produrre le classi dirigenti di domani – a quelle ci pensa la scuola privata, per i figli di chi se la può permettere e che continueranno anche per questo motivo, a fare il lavoro dei padri – ma la massa dei consumatori / cittadini che per svolgere la loro funzione richiedono di una cultura minima – basta saper leggere gli slogan ed essere in grado di mettere una crocetta su una scheda elettorale – come quella che fornirà loro, continuando di questo passo, il nostro già povero e malridotto sistema scolastico.

Facile trovare, in certe idee coltivate un tempo oltreoceano, il modello di tale tipo di società; da un lato una classe dirigente relativamente colta e preparata – e a volte coltissima e preparatissima – forgiata dalle scuole private e dall’altro lato, costretto a rimanersene al suo posto dalla propria stessa ignoranza, un ceto popolare al limite dell’analfabetismo, messo in grado, dalla scuola pubblica, solo di svolgere mansioni semplici come quelle richieste, nella società post – industriale idealizzata dai deliri degli anni 80, alla massa di lavoratori.

Una società divisa, insomma, tra avvocati e rivoltatori di hamburger.

Non ci si rende conto che l’Italia, a prescindere da qualunque considerazione etica o politica, non può permettersi, se vuole restare un paese del primo mondo, una simile economia.

La nostra mancanza di materie prime e la nostra posizione periferica, rispetto alle capitali anglosassoni del sistema finanziario, ci costringono a restare un paese di produttori. Di più ancora, per mantenere le nostre quote di mercato e continuare pagare stipendi decenti ai nostri lavoratori, dobbiamo produrre beni di altissima qualità; dobbiamo essere, in quel che facciamo, tra i migliori del mondo.

La cultura, non solo tecnica, non serve solo a realizzare gadget elettronici o i prodotti che abitualmente associamo all’alta tecnologia; serve a fare, bene, proprio di tutto.

Un mio amico mi ha mandato un hard disk pieno di programmi televisivi italiani. Tra le altre cose ho visto, con i miei figli, che mi sforzo di crescere anche italofoni, qualche puntata della serie Coliandro, che mi è piaciuta assai e, per tornare al tema, un documentario presentato da Piero Angela, in cui veniva spiegato come l’Olanda riesca ad esportare nel nostro paese 30.000 tonnellate di pomodori l’anno.

Sì: l’Olanda esporta pomodori in Italia. Come? Producendoli in serre che sembrano uscire da un film di fantascienza, dove tutto è regolato per avere la massima resa e l’energia è utilizzata nel più intelligente dei modi. Se si ha cultura si possono far crescere, a prezzi competitivi, pomodori pur dovendo riscaldarli ed illuminarli artificialmente; senza cultura, senza saper fare, si può arrivare a produrre vini orribili, come si faceva qualche decennio fa in alcune zone del nostro paese, pur avendo a disposizione climi e terreni perfetti per la vite.

Il nostro governo ha per la cultura il disprezzo di chi oltre a non esser colto non sa neppure fare nulla; di chi, oltre a non conoscere neppure due parole in croce d’inglese o un minimo di matematica, non sa neppure piantare un chiodo dritto.

Chiunque si sia ritrovato ad avere a che fare con il mondo della produzione sa benissimo quante conoscenze servano per fare le cose; quanta chimica, fisica, ma anche storia dell’arte e cultura in genere ci sia dietro ad un bel mobile o a un bel paio di scarpe. Serve cultura, come ci insegno gli olandesi, anche solo per coltivare i pomodori, se si vuole che incontrino il favore dei consumatori sui mercati internazionali.

Abbiamo affidato il governo dell’Italia a un branco d’incompetenti con una visione fumettistica della società e dell’economia.

Gente che non ha mai lavorato e che del lavoro nulla sa; nobilotti di provincia che guardano al modo del lavoro attraverso le lenti deformanti di una ricostruzione della realtà, la loro, simile a quella che operavano, ad uso dei potenti di allora, certi pittori di genere del nostro sei-settecento.

Sognano un popolo ignorante e felice, quello del Todeschini o del Pitocchetto, perché per loro il lavoro quello è: pura oleografia.

Non hanno capito che nel mondo d’oggi, come quello d’allora e di sempre, essere ignoranti vuol dire essere poveri e disperati; vuol dire fare dell’Italia un paese che dovrà competere sui mercati internazionali solo con la più miserabile delle armi: abbassando il costo del lavoro.

Il modo più facile di farlo per una classe dirigente senza idee; il modo più sicuro per diventare come il Vietnam o la Cambogia. O come le repubbliche delle banane del Sud America che fu, ma solo se saremo fortunati.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.215) 14 settembre 2010 21:27
    Neppure l’incompetenza rende Mariastella innocente, invece

    Mi sembra che l’articolo colga aspetti di fondamentale importanza rispetto al disprezzo Berlusconiano per la cultura e la elevazione sociali.

    Meno d’accordo mi trova sulla innocenza di Gelmini: il bambino che provi piacere nello schiacciare formiche non è innocente e una laureata in legge, seppur abilitata nella sede più permissiva d’Italia alla professione forense, non è possibile che non si renda conto dei disastri soggettivi ed oggettivi che la sua riforma sta provocando.

    Non mi sembra peraltro madame Gelmini particolarmente convinta nel dare spiegazioni e nel difendere la "riforma" della scuola che porta il suo nome.

    La realtà vera è che il contabile Tremonti, secondo il costume della prima repubblica, nella quale ha formato la propria cultura di Bilancio, continua nell’esercizio di allora fatto di traslazione dei danni derivanti dagli effimeri vantaggi delle decisioni di oggi, alle generazioni future.

    Un piccolo risparmio sulla Istruzione di oggi sarà, come tu dici giustamente, una severa perdita di competitività e di cultura in generale per la Nazione di domani.

    +++

    Purtroppo il virus della regressione culturale ha iniziato la propria super infettività nelle strutture più deboli - ma non solo - dell’organismo Italia.

    Ragionando giorni addietro su un blog di natura ferroviaria, e portando avanti la necessità di una cultura ad ampio spettro anche per dirimere le questioni tecnico-economico-amministrative, connesse don il miglioramento di sistemi complessi come quello facente capo al mondo ferroviario, sono inorridito dinanzi agli inamovibili paraocchi dei quali sono dai loro studi stati dotati soprattutto i latori della cultura ingegneristica. Altrettanto allibito sono restato dinanzi al loro manicheismo verso ogni forma altra di sapere che non sia fondata sulla sterile tecnicità.

    ***

    Forse il culto della ignoranza, che porta alcuni a maledire una impostazione Gentiliana della Istruzione in Italia, ha colpito molto più profondamente di quanto noi si possa immaginare. Certi gretti tecnici (e in qualche modo sono un tecnico anche io operando professionalmente nell’ambito della programmazione in ferrovia) sono assai simili agli odierni friggitori di hamburger... a differenza di quelli ricevono solo maggiori prebende per non alzare il capo dai loro tecnigrafi.

    E la riforma gelminiana non farà che accrescere il divario tra la classe dirigente (gli avvocati della tua classificazione) e gli esecutivi (i friggitori di hamburger, fossero pure ingegneri).

    E’ la cultura stessa ad essere in crisi: la matematica, e lo ho visto l’anno scorso insegnando alle superiori, non è una forma mentis, al massimo è uno strumento per fare calcoli, fine a se stessi.

    E’ tristissimo, constatare che ai ragazzi, per comodità degli insegnanti, altro non si insegni se non a ragionare tra le varie materie a compartimenti stagni. E il vezzo di far svolgere i compiti in classe a risposte multiple chiuse (che si correggono bene sovrapponendo al formulario una griglia) mi sembra davvero da ammaestratori di pappagalli.

    ***

    Ora vorrei anche sfogarmi: memore della mia esperienza all’esame di maturità industriale (fine anni ’70), allorquando - essendomi abituato a frequentare il Manuale dell’Ingegnere Meccanico (Malavasi) - su quello seppi trovare il mio compito di macchine termiche già svolto; della quale cosa fui elogiato dalla intelligente Commissione d’esami. Memore della cosa volli, da insegnante precario, abituare i ragazzi a saper disporre dei vari presidi formativi anche in sede di verifica. La mia Preside si disse assai favorevole al mio metodo.

    Preoccupazione dei ragazzi era di stare attentissimi alle lezioni e di prepararsi nell’arte della ricerca delle fonti. D’altra parte il mio corso non era di Mnemotecnica ma di Tecnologia.



    Devo però riconoscere che è assai meno stancante per il docente, anziché insegnare ai ragazzi che si pesca con la lenza e le tecniche di tale arte, dargli il pesce già eviscerato, cioè: far leggere loro una pagina del testo didattico e su quella, senza libro a loro disposizione, far svolgere le verifiche come già detto. 

    Tanto lo stipendio è lo steso... Anzi.

    Chi faceva in quel modo (quelli di ruolo) quest’anno insegna di nuovo. Io mi devo trovare altre strade per sussistere.



    Prof. Gabriele Bariletti (in stand by)


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