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Jeans da depressi o da star (con 12 culi)

Io e te, cara lettrice o caro lettore, portiamo i jeans senza farci tante storie sopra, la maggior parte delle volte, almeno. Certo al mattino ci possiamo porre il problema se quel particolare paio va ancora bene o è rovinato ristretto fuori moda, e per una serata importante non tiriamo fuori dall'armadio l'esemplare più da fatica, è chiaro.

Credo però che difficilmente tu ti metta a riflettere sul Jeans come Idea platonica, sull'Essenza del Jeans, ponendola quindi in relazione allo stato di salute mentale e alla definizione di stardom, ovvero percorrendo tutto lo spettro sociale dall'estremo negativo, "sei uno sfigato depresso coi jeans", a quello positivo, "sei una stella superfiga esaltata nelle sue forme dal jeans".

E' un limite tuo, però, come vado a dimostrare con i due maggiori quotidiani italiani, lato colonna di destra.

Due giorni fa sul Corriere titolavano Esci di casa in jeans? Forse sei depressa  e commentavano il solito "articolo di ricerca strambo che pare scritto giusto per finire sul giornale, lato colonna di destra" (sottogenere della letteratura scientifica molto frequentato e con notevoli perle; e ancor più spesso sottogenere spurio, nel senso che all'interno di studio impeccabile vengono inserite esche giornalistiche, subito riprese soprattutto in casa nostra, dove la scienza piace se e solo se non impegna, stupisce e diverte, come i fuochi d'artificio la sera di Ferragosto). Il punto fondamentale è questo:

Lo studio [di un gruppo di psicologi inglesi] ha dimostrato [ehm...] che il “vestito della felicità”, cioè quello che fa sentire bene una persona, è un vestito di buon taglio, che valorizza la figura ed è fatto con un tessuti di qualità e dai colori vivaci. Proprio quello che manca ai jeans. [parentesi quadre mie]

In quanto maschietto, vedi titolo, non sono chiamato al dibattito, e di ciò resto contento. E' bello poter indossare comodissimi jeans senza che ciò segno di disagio psicologico e forse non sono l'unico che, al contrario, quando deve vestirsi da pinguino, con abiti di buon taglio, è non raramente in difficoltà.

Come la maggior parte degli italiani delle ultime generazioni e di ambo i sessi sono infatti cresciuto coi jeans, non in giacca e cravatta (o tailleur); inoltre credevo che da almeno un secolo fossero indagati e riconosciuti i rapporti tra "moda", società e immagine di sé e quindi che non si potesse saltare dall'abito al monaco senza passare per il convento (metafora, mi rendo conto, un poco spericolata e criptica, il "convento" qui è la società). Ma rimandiamo questa serietà antropologica ad altra occasione e torniamo alla "depressione" e alle natiche (per onestà verso i cultori della materia chiarisco però che, nonostante l'ingannatore titolo, non vi saranno altre foto; vi riferisco quindi al link sulla didascalia dell'immagine di apertura).

Il pezzullo del Corriere è, nelle presenti condizioni, inevitabile: lo studio c'è, la notizia stramba c'è, il pubblico che legge e non si trova d'accordo, in virtù di una più profonda comprensione delle cose umane, o mostra parziale consenso, in virtù dell'incontestabile circostanza che certi jeans son proprio trasando allo stato selvaggio, pure. Ugualmente inevitabile è la chiusa ironica di Adriana Bazzi, "per sentirsi felici bisognerà, dunque, sbarazzarsi dei jeans?", motivata dal semplice "due più due" degli psicologi poco psicologi che, con svelta mossa, mettono in relazione la scarsa preoccupazione delle apparenze, supposta caratteristica di chi porta i jeans, con la poca cura dell'immagine, supposta caratteristica di chi è depresso.

Insomma, pare dire la giornalista italiana: questo team di ricercatori inglesi non è mai passato davanti a una vetrina non diciamo di Roberto Cavalli ma di Guess per rendersi conto di quanto possano essere attenti alle apparenze, e "segno di distinzione", i jeans?

Se la colonna di destra del Corriere confezionava ieri quindi un articolo poco convinto ma corretto sul denim, la colonna di destra di Repubblica mostra oggi, all'allievo un po' troppo ritenuto, come si fa, sempre con il jeans, ora però dialetticamente ribaltato in "capo di abbigliamento versatile, che offre un'ampia scelta di modelli. Capace di valorizzare il fascino di questa o quella celebrità". Dove fascino è nome in codice repubblichesco per culo.

In Le star riscoprono i jeans un testo di cinquanta parole presenta infatti uno showdown di dodici culi (uno ogni quattro parole, tra i risultati migliori del nostro giornalismo, a mia conoscenza), invitando la lettrice e\o il lettore di Repubblica D a giudicare quale divina sia davvero monda di alcun "difettuccio", che il versatile capo di abbigliamento, con severa giustizia, è capace di evidenziare almeno quanto valorizza il fascino (difettuccio, lo si sarà ben compreso, è nome in codice per "culo che non rende alla grande in jeans attillato").

Da affezionato lettore di Repubblica D (per i motivi che dovrebbero ormai esservi chiari) mi sento di poter incoronare vincitrice una scontatissima Belen, favorita anche dal gesto atletico del salire in auto sportiva e dal voyeurismo professionalmente linobanfiano del fotografo. A latere spiace rilevare come una beniamina della colonna di destra repubblichesca, Pippa Middleton, protagonista di sempre deliziosamente ironici servizi sul "lato B" (nome oggi manco più in codice), rimanga molto al di sotto delle aspettative con un depresso jeans girigiotopo.

Depresso? Sì, perché ho qui il bonus finale, sia per risarcimento all'exploitation, seppur priva di farfalla, di Belen, sia per rivalutare con colpo di scena finale lo studio d'apertura: Mom's Jeans. Da Saturday Night Live, protagoniste le immortali Tina Fey, Amy Poehler, Maya Rudolph e Rachel Dratch.

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