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Istruzione e diritto allo studio: un’infamia nazionale

Stando ai dati Istat riportati da un’inchiesta de “L’Espresso”, il 18,8% dei nostri ragazzi abbandona la scuola durante gli ultimi due anni dell’obbligo.

Considerando che l’1% degli scolari non riesce neppure a finire le elementari e che il 3% lascia prima della licenza le medie inferiori, più di uno ogni cinque dei nostri giovani è condannato, già prima dei sedici anni, a un ergastolo fatto di lavori poco o nulla qualificati, saltuari e sottopagati, se non a scivolare nel mondo della criminalità.

Una condanna, quella di vivere ai margini del nostro sistema economico, lottando per la sopravvivenza con gli ultimi arrivati dal secondo e terzo mondo, che forse sarebbe auspicabile per tanti della nostra classe dirigente, ma che non è ammissibile per qualcuno tanto giovane; un’ingiustizia, la peggiore tra le tante di uno dei paesi più ingiusti del mondo, che non può trovare la minima giustificazione.

La più irrilevante tra tutte, quella che se qualcuno osa addurla ci dice, da sola, di avere a che fare con un mentecatto, quella che se portata da qualche insegnante dovrebbe portare al suo licenziamento in tronco, è quella che vorrebbe quei ragazzi privi della voglia o delle capacità necessarie per studiare. Sta dicendo, chi parla di volontà degli studenti, che un bambino o poco più dovrebbe trovare da solo le proprie motivazioni; che dovrebbe essere, insomma, maturo quanto i più maturi tra gli adulti: un’idiozia bella e buona, e una disonestà intellettuale, se non accompagnata dall’idea di estendere il diritto di voto (e, dato il modo in cui lo esercitano tanti adulti, la cosa potrebbe avere dei meriti) anche ai seienni. Quanto a chi s’azzarda parlare di capacità, sta di fatto dicendo che gli italiani sono geneticamente inferiori ai popoli del nord Europa, dove l’abbandono scolastico è praticamente inesistente; che da noi e solo da noi centinaia di migliaia di ragazzi sono tanto ottusi da non riuscire ad imparare neppure quel pochissimo che è ormai insegnato prima dei sedici anni.

Ben diverso peso ha la considerazione, purtroppo vera, che per molte famiglie è impossibile mandare i propri figli a scuola anche solo fino a sedici anni; che il lavoro di quei ragazzi è indispensabile, anche se si tratta solo di qualche centinaia di euro il mese, per puntellare le più misere tra le nostre economie domestiche. Questa è un’infamia; un peccato della nostra collettività nazionale che non può trovare alcuna assoluzione. Uno scandalo che solo i più miserabili tra noi possono non sentire per tale. Decida la politica come, ma se vogliamo continuare a dirci un paese civile dobbiamo garantire a tutti, nei fatti, perlomeno fino alla fine dell’obbligo, il diritto allo studio; non ci possono essere priorità che vengano prima di questa.

Più ancora; deve essere reso possibile, a chiunque lo voglia e ne abbia le capacità, accedere all’istruzione superiore ed universitaria. Per chi proviene da famiglie a basso reddito non solo tutto, dall’iscrizione ai libri di testo, deve essere gratuito, ma deve esistere un presalario che consenta allo studente, che dimostri a suon d’esami d’essere tale, perlomeno di sopravvivere senza gravare sul bilancio familiare.

Ci saranno dei costi da affrontare per arrivare a questo, ma le risorse necessarie, magari rinunciando ad altre spese pubbliche, si devono assolutamente trovare, non fosse altro che perché non possiamo pensare di mantenere le nostre posizioni, lasciamo stare l’idea di crescere, avendo come ora una forza lavoro tra le meno istruite dell’OCSE, né si può competere con le altre economie sviluppate avendo una frazione dei loro laureati.

Una spesa, quella per l’istruzione, che dovrebbe essere prioritaria per i politici di destra (se di destra vera si parla) quanto per quelli di sinistra per cui dovrebbe esserlo quasi per definizione.

E’ da liberale che io chiedo università gratuite e presalari, non da socialista o comunista.

Penso che la vita sia competizione, che si lotti per affermare i propri meriti, che si corra per arrivare primi al traguardo; una lotta ed una competizione che hanno un senso, però, solo se a tutti, indipendentemente dalla nascita, sono garantite condizioni di partenza simili; se al figlio del disoccupato sono concesse possibilità di riuscita perlomeno paragonabili a quelle del rampollo del miliardario.

Se non bastasse quel 20% di ragazzi che lasciano la scuola in tutt’Italia, a farci meditare sullo sfacelo prossimo venturo della nostra compagine sociale, sono il 38% quelli che non arrivano a completare la scuola dell’obbligo in Calabria e il 30% quelli che incontrano lo stesso destino nella periferia orientale della ricca, o ex tale, Verona.

E’ vero che ci sono province dove il fenomeno riguarda pochissimi, come quella di Belluno dove nel 2010 hanno abbandonato la scuola solo 27 studenti, ma altrove siamo al disastro: a Napoli, nello stesso anno, gli abbandoni sono stati 60.000.

Qualcuno arriva a dire che una parte della responsabilità di tutto questo sia da attribuire alla televisione; al modello di vita, ai mille esempi di premi senza impegni che propone. Ci può essere del vero, ma in questo la televisione non è che uno specchio fedele della nostra società fondata sul favore e non sul diritto, dove importa molto più chi conosci di quel che conosci. che assegna incarichi e posizioni di responsabilità agli incapaci e costringe alla precarietà i meritevoli.

Una società che dovremmo voler tutti cambiare, ancora una volta prescindendo dalle ideologie; è sempre da liberale, per quanto detto sopra, che, pur con in mente obiettivi diversi da quelli di un socialista, vorrei che il gioco della vita fosse regolato da arbitri onesti e avvenisse su un campo ben spianato.

Una società che dovrebbe voler cambiare anche chi, in questo momento, sembra esserne avvantaggiato perché, prescindendo da qualunque considerazione etica, è talmente inefficiente da non poter più neppure garantire la propria sopravvivenza.

Una società che non può essere cambiata solo dalla scuola, ma che senza la scuola non può cambiare.

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