• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tempo Libero > Moda e tendenze > Internazionalizzazione e tessile/moda: tutti ne parlano, quasi nessuno lo (...)

Internazionalizzazione e tessile/moda: tutti ne parlano, quasi nessuno lo fa

L'unico modo, si dice, per rilanciare la moda "made in Italy" è approdare in modo massivo sui mercati esteri ed emergenti. Il termine internazionalizzazione è diventato di uso comune e tutti ne parlano con disinvoltura, ma la questione è più complessa di quanto si creda e molte iniziative restano specchietti per allodole.

Internazionalizzazione è una parola che recentemente è salita agli onori delle cronache e come molti vocaboli che indicano una cosa importante, quanto non meglio conosciuta e definita, viene spesso utilizzata a sproposito per indicare cose non sempre attinenti al vocabolo, da persone non sempre preparate o anche solo informate di quello di cui stanno parlando, a volte al solo scopo di creare interesse presso clienti professionali alla ricerca di soluzioni imprenditoriali e lavorative.

Internazionalizzazione è il termine che dovrebbe indicare il processo di penetrazione ed insediamento dell’attività (commerciale, oltre che produttiva) in mercati esteri, prevalentemente extra continentali. Una risorsa imprescindibile per un settore naturalmente improntato all’export e vittima di un mercato interno fermo e troppo inaffidabile. Purtroppo, però, l’internazionalizzazione non è cosa per le aziende tessili italiane, pare, almeno per ora e almeno nei canali ufficiali, che offrono questa grande ed attraente soluzione, ma, concretamente solo per settori produttivi, diversi dal tessile e lontani anni luce dal fashion e non affrontano in modo efficace le problematiche e le istanze di cui il settore moda necessita per essere introdotto ed inserito correttamente su altri mercati.

Gestire la vendita di progetti moda (ormai è chiaro che l’internazionalizzazione sia utile principalmente a progetti finali, indirizzati al retail qualificato e sempre meno a realtà produttive intermedie, che all’estero pagano definitivamente la propria non competitività) richiede competenze specifiche solitamente peculiari, che spaziano dal marketing agli aspetti più legati alla creatività, poiché diverse sono le categorie, le fasce di mercato e clientela e le sfumature che un progetto rappresenta e la convivenza di diversi progetti moda all’interno della stessa proposta internazionale dipende unicamente da questi aspetti, molto aleatori, spesso intangibili.

Mentre internazionalizzare aziende del settore tecnologico, o meccanico risulta ottimale e gli aspetti richiesti per ottenere risultati efficaci sono le specifiche di prezzo, qualità e funzionalità, per cui un ottimo prodotto meccanico, dal buon rapporto prezzo-qualità e dal funzionamento certificato certamente avrà ottime possibilità di inserimento su nuovi mercati, il prodotto moda dipende anche dalle tendenze, dal gusto della clientela indigena e dalle esigenze climatiche e culturali, in un insieme di fattori difficili da interpretare e ostacolanti il processo di internazionalizzazione comune (e siccome molto spesso l’unico modo di fare approdare le piccole imprese a nuovi mercati è quello di raggrupparle, per il settore moda questo aspetto rimane normalmente inaffrontato da chi opera nell’internazionalizzazione).

In questo modo, proprio uno dei settori che più necessiterebbe di internazionalizzazione e che più offrirebbe chances di riuscita (perché particolarmente richiesto nelle fasce alte di mercato e riconosciuto come eccellenza made in Italy a livello planetario) rimane relegato all’elencazione dei settori da internazionalizzare, ma raramente approda a progetti concreti ed efficaci, se non a patetici tentativi di organizzare fiere estere, del tutto prive di interesse e senza avere una base di contatti utile ed una rete di collaborazioni che possano fornire un adeguato customer service sulla clientela estera, eventualmente attivabile.

E’ auspicabile, nel tentativo di rilancio dell’economia italiana, che un settore trasversale a tutte le regioni e che rappresenta una importante percentuale del comparto manifatturiero nazionale, nonché uno dei capisaldi della reputazione italiana nel mondo, possa trovare enti e soluzioni atti ad una reale ed efficace internazionalizzazione, che non siano, come troppo spesso accade oggi, inutili organizzazioni di “viaggi della speranza” più volti a rastrellare adesioni e quote di iscrizione che a fornire soluzioni utili e fruttuose alle aziende interessate.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.210) 7 giugno 2012 15:34

    Lei arriva al dunque nelle ultime righe: auspica in breve che qualche ente (pubblico) si sobbarchi le spese e gli oneri organizzativi per l’internazionalizzazione delle aziende del settore moda. Se pensa questo, e cioé che l’azienda privata abbia bisogno della guida dello Stato per svilupparsi, lei é  evidentemente un comunista. Per carità non c’é nulla di male, "comunista" non é una parolaccia ed é ormai provato che i comunisti non mangiano i bambini, come fino a pochi anni fa alcuni pensavano.


    Io, che invece sono liberista, penso invece che le aziende debbano muoversi con i propri mezzi, se e quando lo ritengono necessario. Come lei, anche io ho osservato che i progetti di internazionalizzazione attualmente in corso - PRIMI FRA TUTTI QUELLI OPERATI DALL’ICE - ISTITUTO PER IL COMMERCIO ESTERO - e pagati dai contribuenti, spesso altro non siano che  “viaggi della speranza” di aziende malamente tirate insieme che mai e poi mai hanno una qualche chances di penetrare il mercato e mai e poi mai intraprenderebbero quel viaggio o quella fiera se dovessero pagarlo di tasca propria. Invece paga l’ICE (quindi tutti noi) e quindi perché non andare a fare la tal fiera in Giappone piuttosto che in Cina? Male che vada il piccolo imprenditore o il manager si sarà riempito la bocca presso parenti, amici e clienti (fa molto figo dire che si va a fare una fiera in Giappone, sembra che l’azienda sia piu’ importante di quello che é) e in piu’ si fa un bel viaggetto praticamente gratis.

    Mi creda, le aziende serie non hanno bisogno del contributo statale per andare all’estero, lo fanno se ritengono di avere delle chances commerciali.
    • Di (---.---.---.28) 8 giugno 2012 23:06

      In nessuna delle righe dell’articolo Lei troverà mai un riferimento all’auspicio di qualcuno che si sobbrachi il costo delle operazioni di chiunque. Questa sua lettura forse affrettata le fa trarre un’ulteriore conclusione, se si vuole ancora più errata, cioè che io abbia la qualsivoglia attinenza con l’ideologia comunista, che, personalmente ritengo dannosa in tutte le sue acczioni e non solo quelle più comunemente sfociate nella soppressione dell’identità personale e della vita stessa.

      L’articolo si limita ad auspicare un aiuto culturale, o, quantomeno la fine delle numerose frottole raccontate dai più disparati enti che quasi sempre si traducono in un’inutile spreco di denaro e in risultati controproducenti.

      Nessuno imprenditore che si rispetti vuole che qualcuno "paghi per lui" (altrimenti saremmo davanti ad imprenditori incapaci), ma può esigere che gli enti (società ed associazioni in prima fila, proprio come quella che Lei cita) almeno diano indicazioni corrette e non assecondino le vecchie e superate idee imprenditoriali al solo fine di incassare denaro e non perdere associati....Basterebbe che le associazioni facessero qualcosa per sottolineare come la manifattura sia ormai morta e che gli ultimi produttori cederanno il passo di qui a qualche anno e che per internazionalizzare servano progetti concreti ....questo s’intende (o quantomeno intendo io, da liberista molto convinto) per aiuto e non un intervento statalista (che non ha mai portato a nulla, se non all’omologazione verso il basso)

  • Di (---.---.---.159) 8 giugno 2012 09:31

    Ciò che più trovo meritevole nell’articolo è l’aver chiaramente esposto una delle problematiche che assillano chi vuole "internazionalizzarsi" (qui già la lunghezza terribile del vocabolo ne indica la difficoltà d’approccio). Spesso gli enti che dovrebbero supportare l’imprenditore, a maggior ragione se piccolo o medio, rimangono in superficie. Dopo quello che Paolo GAlli definisce il viaggio della speranza, spesso non rimane nulla o quasi. Mi riferisco all’aspetto commerciale ovvio.

    Chi seriamente vuole affacciarsi ai mercati esteri, per rimanerci e crescerci, deve farlo con le proprie forze se vuole veramente riuscire. Molti hanno successo in questo. Sarebbe giusto e bello fosse solo così. Però noi abbiamo un’arma in più dove lo Stato, quindi il contribuente, mette i suoi quattrini: gli istituti di supporto, ivi compresi quelli che molte regioni si sono date.
    Allora i casi sono due: o diventano veramente utili, di una utilità misurabile tipo la percentuale di imprese che partecipano alle missioni imprenditoriali all’estero e che dopo un anno o due sono poi presenti veramente su quel dato mercato, oppure si cambia metodo. Forse meglio destinare l’equivalente speso per il funzionamento di questi enti direttamente agli imprenditori. Questi lo potranno destinare così direttamente alla loro attività di penetrazione all’estero, senza costi "indiretti". Naturalmente il tutto certificato, verificato per evitare che un investimento si trasformi in un regalino.








     

  • Di (---.---.---.159) 8 giugno 2012 09:34

    Ciò che più trovo meritevole nell’articolo è l’aver chiaramente esposto una delle problematiche che assillano chi vuole "internazionalizzarsi" (qui già la lunghezza terribile del vocabolo ne indica la difficoltà d’approccio). Spesso gli enti che dovrebbero supportare l’imprenditore, a maggior ragione se piccolo o medio, rimangono in superficie. Dopo quello che Paolo GAlli definisce il viaggio della speranza, spesso non rimane nulla o quasi. Mi riferisco all’aspetto commerciale ovvio.

    Chi seriamente vuole affacciarsi ai mercati esteri, per rimanerci e crescerci, deve farlo con le proprie forze se vuole veramente riuscire. Molti hanno successo in questo. Sarebbe giusto e bello fosse solo così. Però noi abbiamo un’arma in più dove lo Stato, quindi il contribuente, mette i suoi quattrini: gli istituti di supporto, ivi compresi quelli che molte regioni si sono date.
    Allora i casi sono due: o diventano veramente utili, di una utilità misurabile tipo la percentuale di imprese che partecipano alle missioni imprenditoriali all’estero e che dopo un anno o due sono poi presenti veramente su quel dato mercato, oppure si cambia metodo. Forse meglio destinare l’equivalente speso per il funzionamento di questi enti direttamente agli imprenditori. Questi lo potranno destinare così direttamente alla loro attività di penetrazione all’estero, senza costi "indiretti". Naturalmente il tutto certificato, verificato per evitare che un investimento si trasformi in un regalino.
    Fabrizio Gandino


  • Di (---.---.---.28) 8 giugno 2012 23:10

    Correttissima osservazione che mi fa aggiungere un’altra sottolineatura....basterebbe che nei luoghi preposti all’aiuto all’impresa ( e nel fashion questa carenza diventa "urgente" visto che ad oggi NON ESISTONo tavoli di discussione dedicati a questo macroinsieme che è il fashion....da non confondersi con il settore tessile!!!!) ci fossero personaggi qualificati e non cariche più o meno politicizzate ma completamente digiune dal settore.....l’ambito moda ha caratteristiche e complicazioni che richiedono una profondissima esperienza ed una notevole carica di innovazione senza l’una delle quali, l’altra è pressochè inutile

    • Di (---.---.---.63) 7 aprile 2015 23:53

      Do you have a spam issue on this website; I also am a blogger, and I was wanting to know your situation; we have developed some nice practices and we are looking to swap strategies with other folks, why not shoot me an email if interested. Feel free to surf to my web page :: minecraft games

  • Di (---.---.---.66) 20 marzo 2014 21:22

    Internazionalizzare un’impresa è un passo strategico per una attività Italiana che vuole allargare il proprio raggio d’azione. L’argomento si è ampiamente diffuso per via del particolare momento storico che attraversa "il Bel Paese" ma è necessario affidarsi a degli esperti. Vi consiglio di rivolgervi al primo incubatore di Business Internazionale "Reincuba9000"; visitate il sito web www.runawayindustries.com e contattate il Dr. Michelangelo DE ANGELIS (Mobile 392 5069628). Nel mese di Febbraio 2013 il Dr. De Angelis ha organizzato una missione imprenditoriale accompagnandomi in Qatar (Medio Oriente). Grazie al suo intervento, uno Sceicco Qatarino ha firmato a favore della mia azienda un contratto di fornitura infissi in legno/alluminio per EUR 2.600.000,00.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares