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Incontro a Parigi con Gianmaria Testa

Incontro con Gianmaria Testa, di scena a Parigi stasera a L’Européen. Il cantautore cunese è a Parigi per una tre giorni di concerti in concomitanza con l’uscita del suo nuovo album: Solo-Live live tenuto all’Auditorium Parco della Musica di Roma, e uscito nel gennaio 2009.

Qual è il momento giusto per pubblicare un live che è anche un best of? Se c’è un momento giusto?
 
Non credo ci sia un momento giusto. Il momento giusto è quando quel live assomiglia a qualcosa che è degna di essere messa nero su mano. Almeno per me. Altre volte mi avevano chiesto di fare un live ma mi sembrava che non ci fosse nulla di così urgente. La bellezza di un concerto sta nel suo essere effimero e non sono sempre d’accordo con i live. Ma questa volta venivo da una tournée lunghissima. Stavo finalmente a Roma per due settimane prima di ripartire per New York. Mi sembra ci fosse un’aria di serena accoglienza e mi sembrava che anche il pubblico fosse d’accordo e c’era in più un’aggravante che però è stata una quota in più nella parte emotiva, era il giorno dopo l’elezione di Alemanno. C’era una sorta di tristezza condivisa che si è trasformata in una specie di solidarietà condivisa. Ascoltando la registrazione che la Venturi aveva fatto del concerto tutte queste cose insieme mi sono sembrate presenti, non so se è solo una mia impressione. Ecco il perché del concerto.
 
Ho letto che il concerto di Roma non era fatto per essere registrato. Pensa che sia un’alchimia del momento o che si ripresenterà?
 
Penso di aver un buon grado di complicità con la gente che viene al concerto. Per quanto mi riguarda salgo su un palco senza affanni come qualcuno che va da qualche parte a dire la sua e non si aspetta nulla di particolare dice la sua idea, la sostiene, poi si può essere d’accordo o meno. Un concerto è un monologo ma per certi aspetti è anche un dialogo il pubblico ha dalla sua il fatto di potersene andare, di potersene andare, di fischiare. Lo trovo un rapporto discretamente paritario, soprattutto per un concerto in solo, in cui non ci sono trucchi, in cui l’errore è evidente se c’è. Quella sera, come molte altre volte, ho avuto l’impressione che il dialogo si realizzasse. Del resto non è un best of questo, io non faccio mai una scaletta, mi scrivo su un foglio quaranta titoli, per non dimenticarmi che ho scritto quelle canzoni e poi attingo dal quel foglio sulla base di una curva emotiva che mi sembra di sentire tra me e il pubblico, ho cantato quella sera quelle canzoni perché mi sembra va che andasse bene così nell’ambito del dialogo tra me ed il pubblico.
 
Quanto le è costato dover rinunciare, in una registrazione di un live, ai tantissimi artisti con cui ha collaborato?
In qualche modo erano presenti, perché uno dei privilegi che ho avuto è stato di collaborare davvero con dei grandi musicisti, che mi hanno comunque lasciato delle tracce, ognuno a modo suo, e quindi in qualche misura queste tracce sono rimaste, mi hanno fatto migliorare, mi hanno insegnato tanto cose e quindi più o meno erano lì, erano con me.
 
Lei ha cominciato in Francia e in Italia si è fatto largo mano mano, non senza fatica credo. Come mai questo percorso al contrario?
 
E’ stato casuale all’inizio perché dopo che ho vinto questo premio a Recanati, Nicole Courtois-Higelin che mi ha proposto di occuparmi di me per la Francia. Per una volta qualcuno si interessava a quello che facevo senza voler cambiare niente, dicendo: “va bene così, pubblichiamo”. Quindi ho cominciato in Francia per caso, dopodiché la Francia aveva ancora, a metà degli anni 90, quella buona abitudine di finanziare la cultura ed io ho approfittato di questo, adesso mi sa che è cambiato molto anche qui. In Italia il discorso è diverso perché la musica, cosiddetta leggera, viene affidata totalmente all’imprenditoria privata, quindi qualcuno che investe su un musicista, su un cantautore, e che deve in qualche modo rientrare nel proprio investimento, non sono mai a fondo perduto. Quindi esistono dei canoni che sono ritenuti necessari per arrivare al grande pubblico. Ogni volta che ogni qualunque forma di comunicazione, per non dire di arte, diciamo di creatività, c’è sempre un punto di frizione. A me è andata bene e poi io non volevo farmi largo da nessuna parte, volevo scrivere canzoni e l’avrei fatto comunque con o senza dischi, con o senza pubblico, non è fatto per vendere, questo disco ne è l’espressione non c’è nulla di più anticommerciale che un disco in solo.

Italia e Francia due paesi di grandi cantautori. Cosa rimane oggi di questa grande scuola? Chi vede in grado di continuare, in Italia, questa scuola?
 
La canzone che noi chiamiamo d’autore, che loro definiscono chanson à texte, che sono modi pleonastici per chiamare delle canzoni che hanno dei testi che vale la pena di ascoltare, ma tutte le canzoni dovrebbe essere così, abbiamo inventato degli artifici per dire che hanno un testo che è proprio da buttare via. Abbiamo da una parte e dall’altra una grande tradizione poetica e di letterature, per cui credo che la forma canzone sarà sempre presente. I continuatori in Francia? Qualche giorno fa è mancato non proprio un cantautore ma un grande musicista che è Alain Bashung ed è uno che ha portato avanti la canzone francese. Ci sono gente come Arthur H, penso a gente come loro che portano avanti la tradizione… In Italia mi viene in mente Vinicio Capossela che è stato capace di rinnovare la lingua della canzone ma ci sono tanti che hanno delle perle nel cassetto delle meraviglie ma non lo sappiamo.


Ne fa una questione italiana di sostegno all’arte, una questione diremmo politica è un caso?
 
E’ triste il paese in cui quando c’è qualcosa da tagliare si taglia sulla cultura subito. Siamo in tempi di crisi lo so benissimo. La cultura non è una cosa accessoria, non si po’ tagliare dalla scuola, dal sapere perché se ne avranno dei ritorni negativi. L’imbarbarimento del paese comporta sempre dei danni molto seri, a tutti i livelli. Lo trovo stupido, è un calcolo sbagliato. In Francia esiste un archivio nazionale della canzone francese, in Italia non esiste, ci sono archivi privati, anche grandi ma gente come De André e Tenco meriterebbero di stare da qualche parte ed essere accessibili.


Lei sposa perfettamente musica e testi. Che rapporto ha con la letteratura, e con la parola scritta?
 
La parola scritta ha per me una connotazione di cosa definitiva, infatti vivo male con i marchingegni di oggi, sto tre ore prima di scrivere una mail, penso se devo mettere una virgola, non sopporto quelli che scrivono che con la k, perché è una cosa che è scritta quindi che rimane. Penso che la canzone che tra le varie forme di comunicazione sia quella che si è fatta più sconti quella che si è prostituita di più anche perché è quella che ha generato più soldi. Purtroppo alla canzone basta avere una bella voce, una bella presenza, si possono anche cantare stupidaggini e avere successo, questo a me dispiace molto. Proprio perché la canzone è popolare e arriva senza fatica, non richiede la fatica di un romanzo, di una poesia cioè quella di essere portato alla mente attraverso la lettura. La canzone ti arriva, è “gratis”, proprio per questa ragione meriterebbe più rispetto, bisognerebbe avere il coraggio di non “licenziarla” così. Per me una canzone è un equilibrio tra un testo, un’armonia e una melodia, quindi il testo conta per un terzo. 

“Si va dove si può sopravvivere o si pensa o si spera di poter sopravvivere se no non c’è ragione di imbarcarsi in 70 su un qualcosa che ne reggerebbe 15 e poi rischiare di annegare e poi rischiare di essere rimpatriati, poi rischiare di essere malmenati. Ser non ci fosse a monte un bisogno superiore (...) e meglio di tutti lo sappiamo noi italiani perché dal 70 a oggi sono emigrati 50 milioni di italiani...Le più grandi città italiane sono all’estero”.

 
Sì è la verità. A Toronto ci sono più italiani che a Bologna, a San Paolo più che a Firenze, la cosa grave è che l’abbiamo dimenticato nello spazio di una generazione. E quindi stiamo accogliendo quelli che vengono da noi in un modo inumano. Con questo non voglio dire che un’emigrazione così massiccia non comporti problemi, è inevitabile che li comporti, però mi aspettavo da noi un atteggiamento diverso, l’atteggiamento di chi sa cosa vuol dire, di chi sa cosa vuol dire partire. A parte rare eccezioni queste persone non vengono in Italia per diporto, ci vengono perché devono salvare i figli da una morte sicura di una guerra o della fame. Quello che mi sembra paradossale è che nessuno abbia capito che non ci sarà nessuna legge, nessun muro, nulla che potrà fermare il viaggio di questi disperati. Non c’è nulla di più forte della la disperazione. Se io vedessi mio figlio morire di fame, affronterei la morte pur di provare a salvarlo. Preferirei di morire annegato in quella specie di lago che è il canale di Sicilia, pensando che ho fatto tutto il possibile.
 
Si può reagire in diversi modi, fondare partiti politici, votarli e portarli al Governo, sull’onda della paura di questo o provare a dire il mondo di per sé è ingiusto, ci sono delle sperequazioni mostruose in cui siamo tutti in parte coinvolti, se non responsabili, prendiamone atto e troviamo delle soluzioni accettabili. Nessuna Bossi-Fini fermerà gli albanesi, nessun muro fermerà i messicani da andare negli USA. Faranno esattamente quello che abbiamo fatto noi. Noi abbiamo esportato Enrico Fermi e Al Capone, il meglio e il peggio. Esattamente quello che fanno gli altri, sulla quantità, vogliamo dirci che ogni nazione ha una quota media di disonesti, poi c’è la grande maggioranza di persone che se non sono sollecitate non lo sono. In un’emigrazione così di massa c’è ne sarà una quota che arriva. Io non ne posso più di leggere sui giornali che “i rumeni hanno commesso uno stupro”, no perché quel tipo avrà un nome, non ho mai visto mai sul Corriere “i bergamaschi hanno commesso uno stupro”, perché ci sarà uno che ha fatto una cosa assolutamente riprovevole e condannabile ma quello è uno, perché il giorno dopo a Roma partono le ronde a picchiare i rumeni. Non è più accettabile da una comune e normale coscienza. Il problema è anche di chi accetta anche questo sistema, questa comunicazione: non si può fare così, non è ammissibile. Ad esempio ai tempi del delitto di Novi Ligure il Giornale titolò: “Sono stati gli albanesi”. Il mattino dopo c’era una caccia all’albanese a Novi Ligure, non è possibile! Io ad un giornale come quello non rilascio interviste. Mi sono preso anche una reprimenda seria, mi hanno dettocce non ero democratico, non mi interessa. Possono fare ciò che vogliono, venire a tutti i miei concerti ma io non permetterò a quel giornale di pubblicare neanche una sola mia parola virgolettata per le posizioni che ha assunto, perché non hanno senso. Noi siamo quelli che siamo partiti dalla Calabria per andare ad ammazzare sei per la strada in Germania. Queste cose succedono ora. La mafia l’abbiamo esportata noi. L’avrebbero, forse, inventata loro ma comunque noi l’abbiamo portata fuori. Mi aspettavo che noi ci dicessimo: lo sappiamo cosa significa.

 
 
 
 
 

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