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(In)ter(per)culturando: analisi attorno a ’Appuntamento con il notaio’ di Alessio Pasa

Alessio PaŠa di sé dice tre cose.
< Ho cinquantaquattro anni. Faccio il libero professionista. Viaggio spesso e ho scritto queste storie in treno>.
Età. Professione. Luogo di scrittura.
Alessio PaŠa è l’autore di un libro ‘Appuntamento con il notaio’ pubblicato a Maggio 2009 da Barbera Editore nella collana ‘Radio Londra’.

Ma le storie che lo compongono avevano già avuto una ‘vita virtuale’ nella pubblicazione web di Vibrisse Libri ormai oltre due anni fa, versione non cartacea tutt’ora scaricabile in formato pdf seguendo il link precedente.
 
Un percorso, insomma, quello verso la pubblicazione forse né più lungo né più corto di altri, eppure questo libro custodisce una particolarità che lo rende rischioso e prezioso allo stesso tempo: il narrare per strofe in versi. Che, spiegato così – forse – non chiarisce nulla. È talmente rara, questa struttura narrativa, che pare perfino ‘gioco di parole’ sterile, burla.
 
Scorre le pagine con accurata lentezza,
sottolinea le imprecisioni,
che chiama errori di battitura.
I capelli grigi, le spalle larghe,
serra forte nella mano la biro blu,
cerchi un intero paragrafo,
soffia, un alito spesso, appena trattenuto.
Falconi, c’è ancora molto da fare,
dovevamo consegnare ieri,
cerchiamo di chiudere per questo pomeriggio.
(pag.9 – incipit)
 
Eccola dunque, la narrazione per strofe in versi.
Una struttura che chiede, cerca, un certo di tipo di lettura (e consapevolezza, nel leggere ’toccando’, digerendo). Che ha bisogno del ‘giusto’ tempo per saggiarne odori, sapori, colori, spessori. Che suggerisce l’abbandono temporaneo di quegli schemi, regole, ritmi a cui la narrativa ‘tradizionale’ ha ormai abituato anche lettori non assidui.
 
Può spaventare? Disorientare? Confondere? Inimicare? Dis-interessare?
Assolutamente si.
 
Ma il passaggio successivo, per chi riusce a proseguire, è un viaggio sconvolgente.
 
‘Sconvolgente’ è un termine forte, duro - me ne rendo conto - ad effetto probabilmente. Ma è l’unico che spiega il subbuglio capace di suscitare PaŠa narratore.
 
Perché non è soltanto la struttura della narrazione, a delinearne la specificità, bensì il linguaggio stesso, l’accurata scelta di termini, l’ossessiva inquadratura di dettagli che sono immagini improvvisamente ‘vive’, pulsanti con la tridimensionalità della realtà. PaŠa spennella tratti che non sono descrizioni lineari, morbide, corpose bensì colpi di frusta che aprono sottili ferite sanguinanti, che mostrano scene tutto sommato ordinarie, comuni, eppure di un’intensità disarmante proprio perché ‘respirano’ attraverso le parole.
 
Il libro si compone di quattro storie, la prima, la più lunga che ne determina anche il titolo, circa una sessantina di pagine, poi le altre tre, dieci al massimo venti pagine l’una. Storie di famiglie, di (non)legami, silenzi, spazi tra corpi, e di tanta, tanta, materia. Perché queste affettività, sentimenti, che nelle storie serpeggiano, spesso non hanno nomi precisi, non li si qualifica in un piano superficiale bensì attraverso versi che tratteggiano scene dunque oggetti, pezzi di dialoghi, pensieri, carne in movimento quanto immobile, memorie recuperate a mescolarsi con un ‘oggi’ comunque sfumato, bucato, ricoperto di strappi, segmenti mancanti come frame persi, cancellati, finiti chissà dove o mai esistiti.
 
C’è qualcosa di profondamente acido, violento nella declinazione di forza che impone con le parole; c’è un ritmo, una visualizzazione e una percezione: ci sono tutti questi elementi impossibili da plasmare a piacimento, impossibili da trascurare (il lettore se ne accorge al primo tentativo). Sono scariche elettriche, frustate improvvise, immediate quanto inevitabili. Ed è la lingua, assieme alla struttura, che realizza questa sorta di ‘cortometraggio da parole’, dove le immagini arrivano come ologrammi, si alternano a velocità variabili (a seconda di quanta rincorsa si riesce a prendere leggendo, e di quanto ’fiato’ si ha nell’insistere sull’azione).
 
Non ha dichiarato che se ne andava,
né che ero io a doverlo fare,
e infatti siamo qui,
a far coppia sola,
per gocciolarci addosso
il rancore
per l’imbarazzante attesa.
(pag. 92 – Paura della notte)
 
Dichiarato. Siamo qui. Coppia sola. Gocciolarci addosso. Rancore. Imbarazzante attesa.
Poche frasi, versi capaci di scivolare rapidi, e bruciare corrodendo.
 
Pochi slanci, nessun abbraccio,
né tra voi, né con noi,
la musica a basso volume,
la televisione negletta.
Parsimonia affettiva,
in una avara monotonia
che ha contagiato la nostra irruenza
costringendoci all’attenzione e alla prudenza.
(pag. 69 – Figlia)
 
Nessun abbraccio. Basso volume. Televisione negletta. Parsimonia affettiva. Avara monotonia. Contagiato la nostra irruenza. Costringendoci (all’attenzione e alla prudenza).
Parole pesantissime, macigni indigesti, sangue e lava che muove intestini e fors’anche oppressioni.
PaŠa costruisce storie unendo scompostamente ‘mattoncini Lego’ fatti di dis-affezioni, dis-amori, distanze, silenzi, dimenticanze, non-tocchi, fastidi, attese, negazioni, noccioli di vita sputati lontano, ossessive inquadrature da cui sgorgano sensi prepotenti, crudelmente onesti nell’intento di non annacquare, sovra-colorire, rinforzare con sostegni che non ci sono, non esistono. Perché queste storie rappresentano quel lato del vivere oggi (che pare quasi dilagante a leggere ad esempio L’ubicazione del bene’ di Giorgio Falco *) dove gli spazi sono sempre più stretti, fagocitano, soffocano. Dove i corpi faticano perfino a sfiorarsi. Dove i legami diventano un letto da condividere, una casa da mantenere, figli a cui ricordare di esserci, entro valzer che sono appena aliti percepibili di arrivi e partenze, esserci e non esserci.
 
Dove stiamo andando? Ci si potrebbe chiedere a lettura conclusa. Con addosso una patina unta che infastidisce, addolora, affatica, inquieta, fa battere forte quell’organo che ancora ci ostiniamo a chiamare ‘cuore’ alludendo ad altro, ma forse alla luce di queste storie, dopo tutto è solo un pezzetto di carne che pompa, lavora per sé e facendolo anche per gli altri attorno.
 
La scrittura di PaŠa nonostante l’originalità, resta scorrevole, fluida. Solo i significati, i sensi dietro, attorno, dentro le parole, possono inchiodarne la lettura, scatenare interruzioni o rallentamenti.
 
Non c’è ricerca di complessità in questa lingua. Men che meno la volontà di stupire con parole che ‘devono’ per forza qualcosa. Tutt’altro. Le parole arrivano quasi in punta di piedi, ma non conoscono tregua. Oltretutto la lunghezza delle storie è tale da non vincolare nel tempo, con il rischio di dimenticare questa o quell’altra immagine precedente.
 
Infine segnalo l’accuratezza dell’oggetto libro, ben rilegato, con copertina rigida. Da segnalare anche per il famoso ‘fattore rischio’ accennato in precedenza.
 
Come ha fatto notare Giulio Mozzi a una recente presentazione fiorentina: “ In Italia l’editoria ha deciso che i racconti non vendono. E che anche la poesia, non vende.” Dunque pubblicare scritture come quella di PaŠa è anche assunzione di rischi macroscopici quanto spruzzi di follia (commercialmente ragionando, ben inteso).
Eppure bastano poche righe, lette ad alta voce. Bastano per rendersi conto che certe volte infrangere (se di questo si tratta) regole, schemi, aspettative, logiche di marketing e (forse) guadagni; certe volte:
 
Contro la paura della notte
possiamo ancora tenerci compagnia.
(pag. 99 – chiusura de ‘Paura della notte’)
 
Un libro da tenere sul comodino. Per leggerne pagine anche a caso, spulciando frasi, recuperando frammenti. Un libro tutto sommato concentrato, come un potente ammorbidente che però non lenisce, restituisce.


* Scrivendo questi appunti, con il rimbombo della presentazione fiorentina tra le orecchie, della lettura che lo stesso PaŠa ha fatto di alcuni brani, il libro di Giorgio Falco ha preso a spingere, nelle mia mente. Due scritture che più diverse non potrebbero. Per periodare, costruzioni, gestione degli snodi e impasti di voci. Eppure. Il sapore amaro in bocca. Un vago senso di pesantezza tra le tempie. Prurito e fastidio tra la pelle secca. Corrugare le fronte e lasciarsi avvolgere dalla desolazione. Tutto questo mi è arrivato da entrambe le narrazioni. In Falco l’intendo di narrare di un ’bene’ e un ’male’ entro le sue storie di quotidiana ubicazione forse pare al principio più marcato (l’intento) se non altro per il richiamo del titolo e di qualche frase qua e là. PaŠa non qualifica i sensi, non lancia veri e propri ami. Blocca frame. Ruba scheggie dell’ordinaria vita familiare, di legami tutto sommato né nuovi né originali. Eppure. Anche in ’Appuntamento con il notaio’ le storie si sfilacciano inesorabilmente, scivolano entro quei buchi di carni di cui ho già tentato chiarimenti in precedenza. E’ un vivere, quello narrato dei due autori, accomunato da azioni, gesti, descrizioni brevi ma precise, scene inquadrate ingrandendone particolari. E in questo vivere entrambi affondano, spingono dita e mani intere entro quelle fratture ormai evidenti, che spurgano e si ingrossano. Fratture della comunicazione, dei linguaggi. Fratture di manifestazioni affettive. Di spontanee capacità di provare affezioni. Di agire pensando a un intero composto da più d’un segmento (se stessi evidentemente). Sono tutte fratture che Falco e PaŠa carezzano continuamente, leitmotiv forse o unici protagonisti che da dietro le quinte sbiriciano, ci fissano.

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