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(In)ter(per)culturando: ‘Quello che brucia non ritorna’ di Matteo di Giulio

Di Milano, di scritture in divenire, storie tinte di nero, rosso e altri colori scuri, sbavati, frammentati; di tutto questo mi sono già occupata, e continuerò a farlo nella misura in cui le storie, le lingue e gli affondi si tendono per lasciare zampate nuove o semplicemente diverse.
 
Mi sono chiesta spesso, negli ultimi mesi, perché Milano? Perché sembra di sentire un certo rimbombo che investe storie, narrazioni e racconti con radici fra metropolitane e periferie milanesi? Perché tanta disperazione, tra personaggi diversi eppure si sente nell’aria, una sorta di rabbia trattenuta, fatica di fare, essere, vivere. Si sente, tra le maglie ampie di età che ormai rifiutano i vincoli generazionali, si sente che l’insoddisfazione in un qualche modo trasborda, non si trattiene.
 
‘Quello che brucia non ritorna’ e il suo autore, Matteo Di Giulio, rispondono in parte ai miei quesiti.
Il romanzo è stato pubblicato nel 2010 da Agenzia X (link in fondo – n.d.r.), una piccola realtà milanese che si occupa di prodotti culturali in diverse forme e modalità realizzative, dunque non solo editoria.
 
‘Quel che brucia non ritorna’ è il secondo romanzo di Matteo Di Giulio (link alla scheda del libro e al sito dell’autore, in fondo - n.d.r.), e si sente che la lingua si evolve, si sta ancora cercando ma si muove con una certa padronanza di strumenti e gestioni spazio-temporali. Di Giulio sceglie di narrare in prima persona, cede all’effetto ‘narrativizzazione d’un reale noto’ che tra le pagine arriva forte e chiaro, e lo fa dando voce a un personaggio vagabondo e consapevole, spezzato da partenze e ritorni, incastrano in un passato che avrebbe voluto dimenticare ma che in realtà ha trattenuto in sé, un personaggio pieno di rabbia, abituato a cavarsela in ogni situazione, per strada soprattutto, un personaggio cha ama e odia Milano e un certo aroma che sente sulla pelle respirandola. Ma non c’è un solo personaggio, in questa storia. Di Giulio si attorciglia i cordoni ombelicali attorno al corpo fino a spezzarli. C’è un interiorizzazione pressante, nel suo narrare, ma che non mira a restare dentro un’unica pancia, un unico corpo, reale o di carta che sia.
 
È di un ambiente, di un certo vivere, di un certo stare in mezzo agli altri, affrontare legami, passioni, delusioni, miserie e decadenze; che scrive Di Giulio. È delle macerie che le parole tracciano contorni e contenuti. Macerie di luoghi che cambiano in fretta, di persone destinate a perdersi, tradirsi, scoprirsi e forse, chissà, accettarsi.
 
Indubbiamente l’ambiente hardcore è cuore pulsante d’una trama giocata sulle scoperte lente e graduali, su una narrazione che si prende tutto il tempo (e forse qualche pagina in eccesso) per addentare i fondali della storia. La scrittura di Di Giulio che si tiene ben salda a un reale a lui noto, è immediata e cruda.
 
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Una parentesi buia, una caverna maleodorante in cui si inzuppa di fango e da cui, ripensando a Drew che spara merda nel braccio, Max esce presto, con una forza di volontà residua dei bei tempi, quando il suo corpo era il tempio di cui rispettava le fondamenta. Torna sui marciapiedi, portando cartelli su cui scrive Ho fame con pennarelli simili a quelli con cui ci tracciavamo le x sulle mani.
È questo pensiero, la distanza tra ieri e oggi, tra la felicità effimera e il presente bastardo, che mi rattrista di più.
Max è un eroe solo, un eroe azzoppato.
 
È l’alba e ho capito cosa posso fare per concludere questa storia.
Max non ha voluto niente, neanche un paio di birre per quando farà troppo freddo. Gli ho nascosto duecento euro nella tasca della giacca. Quando li troverà, ne sono convinto, mi maledirà invece di ringraziarmi. La sua dignità resta forte anche nel momento peggiore.
Probabilmente perderà quelle quattro banconote spiegazzate e non penserà a se stesso. Le darà in beneficienza, comprerà del cibo che lascerà ammuffire, le elargirà a quattro mendicanti fortunati, le devolverà all’acquisto di qualcosa di superfluo ma con un valore rituale inenarrabile. Dischi o libri, la mia speranza. Se non per il corpo, che siano almeno nutrimento per l’anima.
(pag. 176-177, Quello che brucia non ritorno di M.Di Giulio, Agenzia X, 2010)
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Rivolgo alcune domande all’autore.
 
[D] Negli ultimi anni Milano è diventata uno dei centri pulsanti di scritture dure, attorno al noir ma non solo, scritture pregne di precise atmosfere. Una Milano che è più personaggio che mera ambientazione (“Ipotizzo che Milano sia cambiata, non vedo l’ora di capire quanto. La puzza, appena arrivati, è sempre la stessa”, pag. 28).
Ne eri consapevole mentre scrivevi? Ma anche: la Milano corrotta, sfasciata, che narri è funzionale alla storia o è semplicemente ciò che hai sempre voluto dire, della tua città natale e nel romanzo hai avuto l’occasione di approfondire?
 
[R] Milano è più di una città per chi ci vive: per quanto stia perdendo la sua anima, è un essere polimorfo. Forse è per questo motivo che è così ricca di contraddizioni, di valori contrapposti, di metà complementari che si attraggono, che generano odio e amore al tempo stesso.
Ne ero consapevole, sì, e continuo a esserlo. Le Milano di cui narro, di cui ho parlato anche nel mio primo romanzo, anche se con meno rabbia e meno attenzione al sociale, sono facce di una stessa metropoli. La storia di Quello che brucia non ritorna mi ha permesso di mettere a confronto presente e passato, e di provare a tirare qualche conclusione, ovviamente del tutto soggettiva.
La Milano che racconto coincide con la storia che racconto: il mio intento quando ho iniziato a scrivere questo romanzo era infatti un’operazione di memoria orale, di recupero storico, ma anche di critica contestualizzata. Parlare di Milano è una molla che mi permette scrivere romanzi, e il piacere di scrivere è una molla che mi spinge a riflettere su Milano e, più in generale, sul mio tempo.
 
[D] Parliamo della precisazione in copertina ‘romanzo hardcore’. Vorrei che mi spiegassi cos’è, oggi, l’hardcore (“L’hardcore è morto tanti anni fa, penso. Oggi la musica è solo moda” fai dire all’inizio del romanzo), quali sensi ancora resistono rispetto agli anni ottanta e cos’è – per te – al punto da precisarlo e immergerci intere parti della storia.
 
[R] Sarebbe più facile dirti cos’era l’hardcore negli anni Ottanta e Novanta per poi trarne la conclusione di cosa non sia più in questo momento; e di cosa tornerà probabilmente a essere in futuro, visto che la storia di questi tipi di antagonismi, per mia esperienza, è ciclica.
Hardcore è più della musica, è un modo di vivere la realtà cercano di sottrarsi all’omologazione. Significa esprimere se stessi, la propria grinta, la voglia di uscire dal coro, dalle masse predisposte dal sistema, quelle masse che per forza di cose non sono in grado di identificare tutte le idee in gioco.
Oggi hardcore, per quel poco che resiste, è più legato all’aspetto ludico-spettacolare che all’idea di resistenza sociale. Era importante, per me, poter creare un dialogo tra il presente e il passato: ho sfruttato l’idea del protagonista che torna in Italia per una vendetta per tracciare la linea di confine tra due modi di vivere – a Milano, ma non solo: il fenomeno non è così circoscritto e va ben oltre l’aspetto meramente musicale – che a soli dodici anni di distanza sono cambiati radicalmente. E con loro la concezione politica di musica, di comunicazione, di aggregazione. Di spinta verso la libertà, mi verrebbe da dire, come istinto primario.
 
[D] Dagli sviluppi della storia, dai pensieri di Davide traspare una rabbia sotterranea che a tratti esplode, una profonda insoddisfazione e tanta fatica per una generazione, quella degli attuali trentenni (poco più, poco meno), al punto che non basta nemmeno andarsene dall’Italia, cambiare vita e luoghi. Non basta perché prima o poi, si ritorna.
Mi racconti il tuo reale narrativizzato? Cosa c’è del tuo ‘vero’ nei personaggi, nei sentimenti, nelle piaghe fonde generazionali quanto natali, cosa proviene dal tuo vissuto, dalla tua diretta voce rispetto a quello che sembra quasi essere un ‘nuovo trend’ del mercato editoriale (la disperazione fonda e repressa dei ‘giovani’, alcune location a farne da sfondo-rampa di lancio, l’uso di una lingua indurita, diretta, quasi minimale ma che colpisce a fondo).
 
[R] Tolto il trucco narrativo dell’esilio, la finzione della fuga e ritorno, che per me erano fondamentali per tracciare un solco emotivo e temporale, quello che si legge nel romanzo è tutto vero. Non ho avuto remore a fare nomi, a citare i luoghi reali, le band, i concerti. L’intento era documentare, sotto forma di romanzo, un periodo e le sue sensazioni.
Personalmente non credo nelle fughe, non credo che gli esili, se dettati dalla paura o dall’impossibilità di continuare a lottare, siano una soluzione. Se alle spalle c’è un problema irrisolto, tornerà a tormentare. Nel mio caso, gli ideali che sono bruciati, che sono diventati cenere; ma la speranza finale, dopo tanta rabbia, dopo fiumi di amarezza, è che da quelle stesse ceneri possa rinascere qualcosa di nuovo, basato su presupposti simili ma non per forza uguali, non gli stessi ideali.
È inevitabile, per me, narrare la mia realtà, le mie quotidianità. Ho trentaquattro anni e non ho ancora trovato il mio posto nel mondo, in questa società. Le domande che affido ai miei personaggi, alle loro azioni, ai loro dialoghi, sono le mie, i miei dubbi, le mie pulsioni. Siamo la prima generazione, scriveva Alessandro Bertante nella prefazioni di Voi non ci sarete, che sarà meno ricca di quelle che l’hanno preceduta. È uno shock economico, sociale e culturale che giustamente terrà banco a lungo, che ci dà da pensare sul nostro stato attuale. Dall’individualismo, dall’interiorizzazione di questo disagio deve nascere la voglia di ritrovarsi collettivamente, di aggregazione, di comunicazione. Perché, per quanto malmessa, io non credo che la mia generazione, né quella che la sta seguendo a ruota, abbia voglia davvero di smettere di pensare.
 
Grazie a Matteo Di Giulio.
 
 
Link
 
Il sito di Agenzia X.
La scheda del libro.
Il sito dell’autore.

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