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(In)ter(per)culturando: "Il paese dei buoni e dei cattivi" di Federica Sgaggio

"La prima volta che sono entrata nella redazione di un quotidiano avevo un tailleurino estivo giallo uovo, un paio di orecchini a goccia e vent’anni di meno. Quando ne sono uscita, sono andata a comprare un vassoietto di bignè, perché mi avevano presa a collaborare.
Tutto quello che chiedevo a questa professione era una cosa ingenua e banale: la possibilità – eh, l’idealismo dei ragazzi – di dar voce a chi non ne ha. Come mio fratello, per esempio, che si chiama Francesco, è handicappato e ha la voce ma non le parole. Quando uno dice "le motivazioni"...

Inizia così l’introduzione di Il paese dei buoni e dei cattivi’ scritto da Federica Sgaggio, giornalista dal 1992, edito da Minumum Fax in uscita a Settembre (pagg. 220, € 15,00): inizia con un sogno.

In realtà chi ha avuto modo di incrociare Federica Sgaggio quanto meno nelle virtualità - ad esempio sul suo blog - non si stupisce del sottotitolo di questo libro: perché il giornalismo, invece di informarci, ci dice da che parte stare.

Innanzi tutto un’affermazione implicita: il giornalismo non informa. Si potrebbero aprire numerosi dibattiti, in proposito, di teorie a decostruire il mestiere giornalistico ne sono già state enunciate fin troppe, mi limito a notare come un’affermazione così semplice, racchiude mondi di significati e implicazione che il lettore può gradualmente rintracciare nel libro di Sgaggio.

In seconda battuta, ma proprio di poco: il giornalismo ci dice da che parte stare. E ancora si tratta di un’affermazione, che è il nodo centrale di tutto il lavoro di Sgaggio, un lavoro iniziato molto prima che questo libro iniziasse a prendere forma, un lavoro che si rintraccia nel già citato blog, ad esempio, ma anche in ogni intervento (non solo nel web), in ogni partecipazione di Sgaggio negli anni. Difficile stabilire quando la frase da domanda è diventata affermazione, per l’autrice. Difficile perché il percorso, partendo da quel ‘sogno’ ad aprire i ragionamenti del libro, il percorso è stato lungo, complicato, faticoso.

La domanda, invece, è un’altra: perché (il giornalismo, invece di informarci, ci dice da che parte stare). Le risposte, quali che siano per il lettore quanto per i professionisti del settore, emergono da una trattazione che non ha alcuna pretesa di teorizzazione o accademismo. Sgaggio parte dalle basi, dai singoli esempi per nulla aleatori o ‘costruiti ad hoc’, come precisa sul finire dell’introduzione:
 
Questo libro raccoglie decine e decine di esempi – articoli di giornale, dispacci di agenzie di stampa, comunicati stampa, volantini, interventi sui social network, commenti dei lettori sui siti web dei giornali, testi di appelli e petizioni, manifesti politici, testi di videointerventi – in cui risulta chiaro il ruolo che il giornalismo ha assunto nella creazione di una società cristallizzata in tifoserie avversarie.
Si troveranno pezzi 'aperti' e dissezionati; si troveranno analisi e critiche delle retoriche giornalistiche. E anche quando si tratta di frammenti di testi non direttamente giornalistici ma appartenenti al più ampio settore della retorica pub-blica, va ricordato che i volantini e i comunicati vengono scritti perché i giornali e i media ne parlino, e che dunque, in definitiva, sono retorica giornalistica anch’essi.
Tutte le citazioni – con pochissime eccezioni, tutte specificate – provengono dalle edizioni online dei quotidiani citati, anche quando dovesse non essere esplicitato il suffisso ".it" o "punto qualcos’altro": se avessi usato riferimenti alle edizioni cartacee, il lettore avrebbe faticato moltissimo per trovare i testi originali e completi. In questo modo, invece, la ricerca delle fonti risulta favorita.


Una contestualizzazione fondamentale per capire il lavoro imponente che sta dietro questo libro, un lavoro a recuperare, riproporre, analizzare, ragionare e spogliare parole, significati quanto conseguenze di ‘ciò che viene scritto’ e di ‘come viene scritto’. Un lavoro per nulla scontato, e il lettore se ne accorge subito, anche chi abitualmente acquista e consulta quotidiani cartacei - senza dunque avere particolare dimestichezza col web dove tutto si muove velocemente e dove si dice e contraddice con grande facilità.

Sgaggio si occupa di tematiche differenti, a scandire i cinque diversi capitoli-corpo della trattazione, tenendo così divise le ‘sfere applicative’ in cui opera il giornalismo: La retorica della cronaca nera e del lettore ‘buono’; La retorica del testimonial e del ‘brand’; la retorica della meritocrazia, della giustizia e della par condicio; La retorica dell’antimeridionalismo; La retorica della “guerra di pace”.
 
Suggerisco di scorrere l’indice, alla fine del libro, per un primo orientamento, non si tratta di un libro che impone una lettura necessariamente cronologica, una volta capito approcci e dinamiche interne, ogni capitolo diventa un’unità indipendente legata alle altre ma comprensibile in autonomia. Ecco che il lettore può incuriosirsi, ad esempio, dal paragrafo su ‘Le poltrone rosse di Maurizio Costanzo’ o da quello su ‘Vieni via con me’.

Non è una trattazione di ‘certezze’ ma di lucide analisi e ragionamenti motivati e ricchi di spunti riflessivi, fonti, chiarimenti che continuamente rimbalzano tra significati, implicazioni, conseguenze e percezioni individuali. Che le parole hanno ancora - sempre a mio avviso - un peso, è l’evidenza più forte e dirompente, in questo libro, a maggior ragione trattandosi di un contesto, quello giornalistico, che ha numerose implicazioni e diramazioni ma che, in ogni caso, s’intrufola nel quotidiano di chiunque dalla carta stampata, le virtualità, la televisione...

Sgaggio affronta ogni contesto, ogni parola con attenzione per capire quanto pizzichi di rabbia a ricordare quanto di ‘carnale’ e concreto c’è dietro ogni notizia, ogni nome, ogni volto. Non si tratta - insomma - di filosofeggiare, si tratta di recuperare pesi, di assumersi responsabilità.
 
E, in quanto a responsabilità, in questo libro se ne rintracciano continuamente, non soltanto per chi svolge il mestiere (come s’immaginerebbe) ma anche in chi legge, in chi ogni giorno ascolta ad esempio un telegiornale mentre fa altro, o sbircia le pagine on line delle testate in una pausa dal lavoro, o ancora chi sfoglia un quotidiano al bar e così via. Le responsabilità non sono mai unilaterali men che meno univoche e - che si sia d’accordo o meno con le trattazioni di Sgaggio - in questo libro è innegabile l’esigenza di recuperare consapevolezze, quanto strumenti a decodificare registri linguistici, stili, approcci e modalità divulgative.

Difficile anche riproporne stralci, proprio per la natura argomentativa che, all’interno di ogni paragrafo, di ogni ragionamento, richiede attenzione, ha bisogno di essere seguito fino in fondo per comprenderne il complesso intreccio di decodifiche e matasse ‘sbrogliate’ (come si sa: i fili, una volta sciolti, tendono a sfuggire facilmente).
 
 
Le parole sono sempre importanti. Quando si tratta di vita e di morte forse lo sono ancora di più. Mobilitano emozioni e sentimenti, resuscitano le memorie dei dolori; diventano, insomma, parole pesanti. E per questo, forse, sono cariche di un potere quasi magico: le leggi, le senti, le ascolti, e non ti preoccupi che esse siano autentiche, né che il loro significato possa nascondersi dietro una cortina di fumo sentimentale. Le bevi, diventano tue.
 
"La battaglia di Englaro è una battaglia di democrazia, di libertà. Nessuno può scegliere al posto tuo quale vita è degna di essere vissuta, ognuno può e deve poterlo decidere per se stesso. Per questo serve un testamento biologico, non la legge ora in discussione che è solo sopraffazione". Roberto Saviano avrebbe voluto essere questa sera al teatro Umberto di Roma dove alle 21, aperto a tutti, si tiene un happening teatrale dal titolo Le ragioni del cuore, testamento biologico, sentimenti e diritti a confronto con Beppino Englaro, il senatore Ignazio Marino, Simona Marchini, attori, cantanti, avvocati a raccontare le mille facce della realtà tra musica e prosa, medicina e politica con la regia di Accordino. Non potendo essere fisicamente sul palco, Roberto Saviano lascia a un video il suo pensiero".

Questo stralcio di articolo giornalistico è ripreso da Repubblica.it, ovvero il sito web del quotidiano che utilizza inesclusiva l’immagine di Roberto Saviano come veicolo delle
battaglie civili che decide di promuovere, di modo da aggregare intorno alla testata l’adesione identitaria di una comunità di lettori. Sono parole pesanti: "una vita degna", "democrazia", "libertà", «sopraffazione», «cuore», «sentimenti», «diritti».
Ma il contesto, quello sì, è decisamente leggero. Fra il tema e il modo di affrontarlo c’è una sproporzione.
(Inizio del paragrafo ‘la vita, la morte, il semplice e il vero’ - capitolo ‘La retorica del testimonial e del Brand’, pag.70-71)
 
Un libro per ‘muovere i neuroni’, per discutere magari perfino per arrabbiarsi, perché no? Un libro dove s’impara la sottile quanto ormai indispensabile arte di ‘traduzione da italiano altrui a italiano proprio’ ma anche una spinta propulsiva a mettere in discussione qualunque affermazione e qualunque autorità in ogni possibile declinazione e ruolo in una realtà - quella in cui viviamo - dove l’oggettività dei fatti non esiste, ogni divulgazione (dal comunicato all’articolo, dall’approfondimento all’intervista passando per i reportage, i documentari e le dichiarazioni dirette) risente di necessità, obbiettivi, intenzioni e volontà soggettive o, comunque, di una certa soggettività.

L’imperativo, dunque, che questo libro urla forte e chiaro è: mettere in discussione, ragionarci con la propria testa e, laddove possibile, non lasciarsi trascinare verso nessuna direzione che non sia stata liberamente e consapevolmente scelta.

Al di là dell’essere o meno d’accordo sulle singole analisi, sulle considerazioni e i ragionamenti che Sgaggio propone con fluidità, senza fronzoli; al di là delle possibilità di ognuno di seguire in modo più o meno approfondito l’immenso mondo di notizie e accadimenti: ‘Il paese dei buoni e dei cattivi’ è un libro semplice, si legge senza avere particolari competenze o conoscenze specifiche (i riferimenti e le citazioni sono contestualizzati e spiegati con rigore e precisione) ma è anche un libro che espone nervi ‘scomodi’, nessuna ‘dichiarazione sorprendente’ eppure non è così usuale e frequente una simile decostruzione. Un libro che non la manda a dire, ci mette nomi e cognomi, ci mette volti e corpi, ci mette pesi e sottotracce.
 
Sono meglio i settentrionali o i meridionali? Come si legge sul Corriere.it del 6 giugno 2011, che riprende un’intervista già pubblicata dal Giornale, Jessica Brugali, la diciottenne nominata Miss Padania 2011, non ha dubbi [...] Infine il discorso si allarga, forse un po’ troppo, quando le si chiede se al Sud c’è poca voglia di lavorare. "Magari sì. Sono più svogliati, noi del Nord siamo meno lazzaroni".

Cominciamo, allora. E cerchiamo di rispondere a qualche domanda. Se è vero oppure no, per esempio, che l’antimeridionalismo è una delle linee di faglia lungo le quali si divide – secondo coordinate di appartenenza politica? – lo spazio civile del paese; se esso possa essere messo in relazione al risorgente (o già risorto?) razzismo. Tra l’altro, nell’anno della celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, la comparsa di testi come Terroni di Pino Aprile e Il sangue del Sud di Giordano Bruno Guerri attesta che l’editoria ha già isolato la questione come un argomento autonomo e a sé stante, così come accadde per l’immigrazione ai tempi del volume di Gian Antonio Stella, L’orda – Quando gli albanesi eravamo noi.
E tentiamo anche di vedere, infine, se è vero che i giornali utilizzano l’antimeridionalismo come tema, ancora una volta semplificato, intorno a cui riunire la comunità dei loro lettori, e se i lettori lo usino corrispettivamente come segnale del fatto che quel giornale e non un altro è il giornale di riferimento della loro comunità.
La citazione qui sopra ci dà subito un avvertimento implicito ma nemmeno troppo. Lo vedremo tra un momento.
Per ora, partiamo da una domanda: perché un giornalista chiede a una ragazza di diciotto anni di valutare – difficile sapere in base a quali criteri – "se al Sud c’è poca voglia di lavorare"?
La prima spiegazione che viene in mente a chi lavora in un giornale è questa: lo chiede perché sa che la risposta fornirà in ogni caso un titolo che attirerà l’attenzione sul suo pezzo. Sia che Jessica dica di no sia che Jessica dica di sì, il titolo c’è tutto, comunque. Nel caso del Corriere, per esempio, è: "Jessica, la nuova Miss Padania: “No alle ‘terrone’ in concorso”. E cosa succede, dopo che un giornale titola sulle risposte di una diciottenne sul problema della concentrazione territoriale dei lazzaroni e sull’ammissibilità delle ragazze "terrone" al concorso di bellezza? Che altri giornali, molti blog e molti siti si occuperanno di quelle risposte, rilanciandole e trasformandole in una notizia al quadrato o addirittura al cubo: dipende da quanto avranno voglia di cavalcarne l’onda.

(pag.191-192, paragrafo ‘La Miss à penser’, capitolo ‘La retorica dell’antimeridionalismo’)
 
Un libro che ha affinità negli approcci quanto in taluni ‘mundi operandi’ con altre pubblicazioni recenti come ‘Narrare - dall’Odissea al mondo Ikea’ di Davide Pinardi, a testimoniare - a mio avviso - un’esigenza non più ombelicale, di comprendere, ma soprattutto di imparare a difendersi dai ‘dati per certi’, dalle scritture, le narrazioni, le informazioni e le notizie “vere” per partito preso, in quanto tali.
Un’esigenza da coltivare, uno sforzo che dovrebbe diventare l’impegno individuale a ridefinire i confini tra fiction e fatti nella collettività, tra rielaborazioni e accadimenti, tra l’azione e la reazione, il visto e il detto, ma anche tra il detto in un modo e tutti i modi in cui poteva essere detto.

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