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Il rapimento Engel (NBC), l’etica del blackout e i giornalisti uccisi nel 2012

 

Richard Engel, corrispondente della Nbc, e il suo staff sono solo gli ultimi dei reporter rapiti in Siria quest’anno. Tenuti prigionieri per cinque giorni, Engel e i due suoi collaboratori sono riusciti a scappare stamattina, durante l’ennesimo trasferimento. In un’intervista alla Nbc Engel ha raccontato come è avvenuto il sequestro.

Erano appena arrivati in Siria e stavano viaggiando scortati dai ribelli in una zona che avrebbe dovuto essere sotto il loro controllo quando l’auto è stata assalita da quelli che poi dedurranno essere forze lealiste al Presidente Bashar al-Assad. Quindici uomini armati sono sbucati da dietro alcuni alberi, li hanno fatti uscire dalla macchina, legati, incappucciati e gettati in un camion che avevano parcheggiato sul ciglio della strada per portarli poi in un posto sicuro.

Cinque giorni in cui, racconta il reporter, non hanno subito violenze fisiche, ma non sono mancate quelle psicologiche come, ad esempio, le pistole puntate alla tempia, le continue minacce di morte o la richiesta di decidere il nome di colui che avrebbe dovuto essere ucciso (più volte, poi, i rapitori gli hanno fatto capire che volevano usarli come merce di scambio). Almeno fino ad oggi, quando mentre subivano l’ennesimo trasporto in un altro luogo sono stati liberati dai ribelli, riuscendo a fuggire e a trovare riparo in Turchia.

Ma il rapimento Engel ha portato con sé un anche una polemica, per così dire, etica che ha riguardato diversi media. Nei giorni successivi il rapimento la Nbc aveva pregato di non divulgare notizie per ragioni di sicurezza. Cosa rispettata da alcuni e non da altri.

Cosa rispettata da alcuni e non da altri. Gawker, ad esempio, ne ha parlato ieri con uno dei pezzi più ripresi sui social media e Joon Cook, il giornalista che ha seguito la vicenda ha spiegato la scelta di non rispettarlo (blackout che in passato fu chiesto anche dal New York Times per il rapimento di David Rohde nel 2008) così:

La ragione fondamentale del blackout ci è stata data in una conversazione off-record, quindi non posso dirvi qui le loro argomentazioni. Ma vi dirò questo: nessuno mi ha detto niente che indicasse una specifica, o anche solo generale, minaccia alla sicurezza di Engel. Nessuno mi ha detto: “Se tu ne parli, sappiamo che, o sospettiamo, che possa succedere X, Y o Z”. È stato assolutamente più vago e generale di questo.

(…)

In più, in pratica, non c’è stato blackout. Xinhua e Breitbart hanno pubblicato resoconti in inglese. C’erano circa 100 post al minuto su twitter sull’argomento. Era, insomma, una situazione in cui le informazioni erano facilmente accessibili su internet e nella regione (…)

In un articolo sul caso, Poynter (che ha rispettato il blackout) riporta i tweet di Jeremy Scahill, responsabile per The Nation della sicurezza interna, in cui il giornalista scrive prima che: “Quando la famiglia/datore di lavoro di un giornalista scomparso chiede ai media il blackout, questo deve essere rispettato” per poi aggiungere che “ci possono essere delle trattative di cui altri media non sono al corrente e bisogna rispettarle. Possono voler significare vita o morte per il giornalista scomparso”.

La fuga del giornalista e dei suoi collaboratori avviene proprio nel giorno in cui il Committee to Protect Journalists (CPJ) ha rilasciato il suo report sui giornalisti uccisi nel 2012 mentre lavoravano e viene poche settimane dopo sia un report simile dell’International Press Institute (IPI), sia dopo quelli sui giornalisti incarcerati nel mondo a causa del loro lavoro (ne ho trattato in questo articolo).

Nel report si rileva come sia proprio la Siria la nazione in cui sono morti più giornalisti a partire da metà dicembre 2011. Dal momento in cui il Governo ha praticamente vietato ai giornalisti di entrare liberamente nel paese questi sono costretti a correre molti più rischi (e paradossalmente i pochi collaboratori morti rispetto al passato dimostrano come siano obbligati a muoversi da soli e in clandestinità) e come sempre più i citizen journalist siano stati importanti e tra i più colpiti:

Con i giornalisti internazionali bloccati e i media tradizionali del posto sotto il controllo dello stato, i citizen journalist hanno preso videocamere e taccuini per documentare il conflitto – e almeno 13 tra loro l’hanno pagata a caro prezzo

La “guerra di Youtube” l’ha definita Paul Wood, corrispondente della BBC dal Medio Oriente: “C’è un ragazzo che corre con una pistola e altri due che lo seguono con una fotocamera”.

La maggior parte dei giornalisti uccisi, il 94% dice sempre il report, sono giornalisti locali che coprivano eventi del loro paese. Quattro sono stati quelli internazionali uccisi nel 2012 e tutti in Siria: l’americana Marie Colvin, del Sunday Times, il fotografo freelance francese Rémi Ochlik, il reporter di France 2 Gilles Jacquier e il giornalista giapponese Mika Yamamoto.

Grafico dei giornalisti morti dal 1992 al 2012

Grafico dei giornalisti morti dal 1992 al 2012

Un dato che riportava anche l’IPI è come siano i giornalisti dell’online quelli maggiormente colpiti. Sono infatti un terzo del totale, in netto aumento rispetto al 2011 quando furono un quinto. Il 28% dei morti, inoltre, erano freelance. Le nazioni più pericolose dopo la Siria sono la Somalia e il Pakistan, detentrice per il 2010 e il 2011 di questo macabro record.

Il report completo lo trovate qui in inglese mentre qui trovate un po’ di dati e grafici.

Questo è, invece, un video pubblicato sempre oggi dal CPJ sul rischio di fare informazione in Siria:

Questo articolo è stato pubblicato qui

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