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Il corpo di Scarpa

C’è una piccola e preziosa bibliografia contenuta in fondo alla breve aletta di copertina di Corpo (Einaudi, 154 pagg., 11 €), l’ultimo dei tre libri che Tiziano Scarpa ha mandato in libreria in poco meno di due anni. È una lista che apparenta Corpo alla “genealogia secolare delle descrizioni appassionate che traboccano volentieri nell’immaginazione un po’ folle”: le Storie naturali di Jules Renard, le Storie di Cronopios e di Famas di Cortàzar, Le città invisibili di Italo Calvino, Il partito preso delle cose di Ponge. È raro che un testo non saggistico indichi apertamente il solco dentro il quale si inserisce, il diagramma gerarchico di cui è figlio e epigono. C’è il rischio, però, che la lista ingeneri nel lettore delle aspettative fuorvianti rispetto al contenuto effettivo della raccolta. Le cinquanta prose di Corpo, infatti – ben lontane dalle osservazioni entomologicamente distaccate di Renard o dalla cerebrale scansione strutturale delle Città invisibili, e allo stesso modo debitrici solo in parte dell’anima che “innalza costruzioni geometriche ossessive” di Cortàzar (come ebbe a dire Italo Calvino) – sembrano più caratterizzate da quella che Jacqueline Risset, proprio a proposito del Partito preso delle cose, chiamò “allegria materialista”: quel pattinare svagato sulla superficie del mondo, quel “contatto rinnovante con l’esterno, con le cose della natura”.

Più che un Marco Polo affabulatore, in questa raccolta Tiziano Scarpa sembra un Palomar glossolalico che ripete una moderna preghiera laica rivolta all’ultimo tempio rimasto all’uomo moderno: il corpo. Alle speculazioni sulle forme delle onde e degli stormi (che pure sono presenti nel capitolo dedicato agli occhi) si sostituiscono le osservazioni stupite sulla bocca (“un’orbita per un occhio grande come un uovo”) e le dita (“campanili issati intorno al sagrato del palmo”), sui nervi, i denti, i brufoli, i talloni, la schiena, le ginocchia, i capelli, la gola, i tendini… Valerio Magrelli e Julia Slavin, Hanif Kureishi e l’ultima Yoshimoto, passando per Shelley Jackson – che oltre a scrivere di, scrive sui corpi: sembra una tendenza quasi consolidata, negli ultimi libri di questi autori, e non solo, quella di porre al centro della ricerca letteraria una nuova via di accesso al corpo, un rinnovato tentativo di recuperare un’idea della fisicità troppo spesso esaurita in usi puramente strumentali (corpo come forza-lavoro economica, come organismo da sanare, come carne da redimere alla religione). Mescolando a un lessico sempre nitido lirismo e ironia, senso lucreziano della natura e grottesco, Tiziano Scarpa abbandona la lezione simmeliana di Kamikaze d’occidente (il denaro e il sesso come forma dei rapporti umani) e fa sua quella di George Bataille: l’erotismo e il senso del corpo sono sì strumenti di approvazione della vita, ma l’ombra lunga della morte c’è ed è visibilissima; si allunga in quasi tutte le pagine; occupa con corpi o parti di corpo esplose, fulminate, soffocate, le ultime righe di molti capitoli. “Nella mia bocca tengo nascosta una capsula di cianuro che ho preparato per la grande occasione. Quando la morte verrà, la bacerò in bocca e la ucciderò”. Stilos ha intervistato Tiziano Scarpa.

In Due o tre cose che voglio fare con i libri che scriverò (breve saggio contenuto in Cos’è questo fracasso?) hai scritto: “La letteratura non abbandona mai il corpo a se stesso (…) Gli scrittori non sono intellettuali: sono corpali, corpuali (…) esseri corpoverbali, individui logosomatici dove linguaggio e corpo si patiscono a vicenda”. È corretto rintracciare in questo stralcio (del 1997) il nucleo che ti avrebbe portato a scrivere, oggi, Corpo?

Quella era una considerazione teorica. Questo libro è una festa dell’immaginazione, non nasce a tavolino… Era da molti anni che volevo scrivere Corpo. Finalmente ho trovato la concentrazione giusta, l’ho composto in un mese e mezzo, senza interrompermi neanche per un giorno, scrivendo un capitolo ogni mattina. È sbocciato così. Sfogliandolo, un lettore potrebbe pensare che io abbia raccolto quei cinquecentosessantasei aforismi nel corso di molti anni, trascrivendoli nei taccuini, in foglietti volanti… Invece no. È uscito come un’eruzione.

Una buona sintesi di Corpo credo stia anche in questa frase di Derrick De Kerchove: “Da ora in avanti c’è il nostro corpo, e non più solo la testa, che è impegnata nell’organizzazione dei significati”. Sei d’accordo?

Credo che sia sempre stato così. Vedi, io non penso affatto che il corpo sia un tema che si possa definire “alla moda”, o “di tendenza”, o “tipico del nostro tempo”. La nostra esperienza di esseri viventi si è sempre compiuta nel corpo. Questa è un’opera che avrebbe potuto scrivere un autore di qualsiasi epoca. In questo senso credo che Corpo sia un libro “classico”: affronta un argomento universale, un’esperienza fondamentale, comune a tutti gli uomini di tutte le epoche.

È come se queste prose fossero una lunga e fittissima nota a piè di pagina del tuo ultimo romanzo, Kamikaze d’Occidente: un’appendice in forma autonoma di libro, un manabile ermeneutico in cui sfrondi gli snodi narrativi e ti concentri su quello che in Kamikaze era uno dei nuclei principali dell’intero libro…

A me Corpo sembra invece un’opera completamente indipendente. Non si mette in rapporto con Kamikaze, né per il tema, né per il tipo di scrittura. È una raccolta di intuizioni, immagini, apologhi. Di frasi assolute. E poi è un libro che avevo in animo di scrivere da almeno sette anni, ben prima di concepire l’idea di Kamikaze d’Occidente. In generale, penso che i libri di un autore non dovrebbero essere letti facendo confronti fra un libro e l’altro. Ogni libro è un’opera a sé stante. L’autore non tiene conto di cosa ha scritto prima. Gli scrittori non scrivono mica ricapitolandosi in testa il proprio percorso! A me piace cambiare completamente prospettiva ogni volta, tuffarmi in un’opera per attraversare un paesaggio nuovo, uno stile diverso, una lingua e un’immaginazione per me inedite. E mi piace scoprire a poco a poco le leggi interne, la forma del libro che sto scrivendo. Non mi rifaccio mai a opere che ho già scritto. Io penso che quella che tu mi proponi sia una concezione troppo personale, o meglio personalistica dell’autore, nel senso che vedi innanzitutto la persona dell’autore come criterio unificante, che mette in rapporto le diverse opere scritte da una stessa persona. Intendiamoci, non sei il solo. Tutto lo studio della letteratura è fondato su questo. Ma ogni opera è diversa! Voglio dire che l’autore spesso comincia a scrivere un nuovo libro come se facesse ingresso in un mondo nuovo: come lo sbarco in un pianeta dove valgono altre leggi gravitazionali, la miscela di gas dell’atmosfera è diversa, le piante e la fauna sono sconosciute.

Hai raccontato di 50 parti del corpo umano: perché proprio quelle e non altre? Qualcuna è rimasta fuori?

Ho scelto le parti più consuete, quelle che nominiamo normalmente nella nostra esperienza quotidiana. Non ci sono gli organi interni come il pancreas, il fegato, la tiroide… Ma le ossa, i tendini, i nervi, le vene, i muscoli e il cuore hanno ciascuno un capitolo. Non è rimasto fuori nulla di veramente importante, mi pare. In alcuni casi ho accorpato certe parti: difficilmente avrei saputo dedicare un intero capitolo alle sopracciglia, così qualche aforisma su di loro l’ho messo nel capitolo delle ciglia. Sono molto fiero di aver dedicato un capitolo ai gomiti, una parte del corpo umano che, credo, non ha avuto molti cantori prima di me. Forse, chissà, sono il primo poeta dei gomiti in tremila anni di letteratura!

Ancora una volta ribalti il piano linguistico e stilistico dei tuoi libri: dopo la scrittura asciuttissima di Kamikaze d’Occidente, sembri tornato a certe pagine capricciose e acrobatiche di Occhi sulla Graticola…

La mia impressione è che il lessico che ho usato qui sia molto controllato, limpido, preciso. Quasi classico, rispetto alle esorbitanti capriole di Occhi sulla Graticola. Ma, ripeto, non si tratta di tornare indietro a vecchi libri: ogni opera fa storia a sé, detta la sua legge e la sua forma.

È cambiato lo sguardo che lanci al tuo corpo nello specchio dopo questo libro?

È una bella domanda. Ma io non mi guardo da fuori, bensì da dentro. Questo libro è scritto da dentro il corpo, non allo specchio. Ogni tanto apro il mio libro e leggo a caso un aforisma che mi fa percepire in modo spiazzante la mia presenza dentro me stesso e dentro il mondo. Per esempio: “le mie palpebre inseriscono un fotogramma nero nella pellicola dello sguardo”. Oppure, sento un brivido e penso: “i miei nervi sono i fulmini del mio corpo”. Sento un rumore e penso: “è stupefacente la precisione con cui vengono scoccati i suoni; ogni pallina da golf centra la buchetta delle mie orecchie”. Secondo me questo libro andrebbe letto così, aprendolo a caso, leggendo un pensiero e sentendo che effetto provoca sulla parte del corpo che descrive.

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