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Il contratto dei giornalisti e l’evoluzione della professione

Con il nuovo contratto si chiude il secolo del narcisismo dei giornalisti.

C’è davvero un clima strano attorno al contratto dei giornalisti. Dopo quattro anni di attesa, la firma dell’intesa sindacale sembra lasciare tutti di stucco. Molti si sono affannati a dichiarare che si tratta, tutto sommato, di un buon contratto. Altri invece gridano al contratto bidone. Ma tutti sembrano frenati: con quello che sta accadendo nel mondo si tratta di quisquilie, "pinzallacchere" avrebbe detto Totò. La gente ha ben altro per la testa.

Mi permetto di dissentire. La gente, pur con problemi che trascendono l’ancor invidiato mondo dell’informazione, farebbe bene a dare un occhio al problema. Gli potrebbe capitare fra capo e collo, da un momento all’altro. Qualsiasi attività svolgano. Innanzitutto il merito del contratto: è davvero brutto. Un pessimo contratto e una indecente gestione sindacale della sconfitta. Per certi versi il secondo è peggio del primo dato. Guardiamo ai fatti: il contratto, dopo 4 logorantissimi anni, giunge a sancire un dato: i giornalisti non sono più al centro del processo di produzione e gestione dell’informazione.

Poco male, si potrebbe dire, anzi, si aprono le gabbie e finalmente si parla. Il fin troppo citato articolo 21, che tautologicamente è ormai un brand commerciale, smette di essere usato per rivendicare un’informazione libera e diventa il motore del diritto a produrre, direttamente l’informazione. Agoravox e mediasenzamediatori.org potrebbero festeggiare con l’antipaticissimo, ma mai come questa volta inevitabile, "ve lo avevamo detto noi". Purtroppo il quadro è più complesso e pericoloso. Il contratto smonta il quadro di garanzie professionali che avevano dato forma al vecchio ciclo fordista dell’informazione: autonomia del singolo giornalista, coproduzione dell’informazione fra editore/direttore/redattore, automatismi retributivi che sottraevano il singolo redattore dal ricatto potenziale dell’editore, negoziabilità di ogni singolo atto organizzativo. Questo era il mercato dell’informazione: bilanciamento dei poteri nel ciclo produttivo e rilievo alla singolarità del redattore. Bene o male, questo quadro ha garantito una dialettica tale da limitare strapoteri e vessazioni. Certo dietro a questo sistema di garanzie allignava anche una rendita parassitaria di corporativismi protosindacali che hanno chiuso gli accessi alle professioni, appesantendo le redazioni e spostando il baricentro dall’informazione alla gestione dei flussi di entrata nel circuito redazionale.


Come sempre, in una dialettica sociale, quando si appesantisca oltre misura un quadro di prerogative non condivise socialmente, l’equilibrio si rompe e il pendolo oscilla sul versante opposto. Questa è l’apparenza di quanto sta accadendo. Se fosse solo questo, ripeto, poco male. Vivremo una stagione di riequilibri e di opposti estremismi, per ritrovare poi una fase di stabilità. Ma questo riequilibrio avviene in una fase dove si sta riclassificando l’idea stessa di comunicazione. Siamo in quella fase che Ivan Illich, uno dei massimi critici della modernità e dunque non sospetto di nuovismo preconcetto, definiva di passaggio "dalla pergamena al libro", ossia da un sistema di comunicazione verticale, centralizzata e costosa, ad un altro orizzontale, decentrato, e a basso costo. Una fase che riconfigura tutto l’articolato modello produttivo e, soprattutto i profili professionali che vi sono applicati.

Siamo insomma in una fase costituente, potremmo dire, per mutuare dalla adiacente arena politica, un termine che fa sempre grande scena. In questa fase i giornalisti sembrano davvero dei brutti anatroccoli. Quelli che erano dei cigni solenni, che si muovevano con agio e disinvoltura fra le crisi degli altri. Che spiegavano ai metalmeccanici della Fiat che nell’80 avevano perso perché non avevano percepito il nuovo che cresceva in fabbrica, le nuove figure professionali che si formavano, i nuovi modelli produttivi che fuoriuscivano dal perimetro di Mirafiori, ebbene proprio quei soloni oggi si guardano allo specchio e si ritrovano come tanti Gasparazzo, l’archetipo dell’operaio massa, furibondo e frustrato per la sua marginalità, che non si rassegna a non essere più classe dirigente. Lo specchio dove si rifletteva l’immagine del giornalista libero e selvaggio, che volteggiava da una conferenza stampa ad un’inchiesta spericolata, fino ad inseguire i carri armati sulle colline del Golan si è rotto. Siamo alle prese con una riduzione della paga, con una minaccia di mobilità, con prepensionamenti incombenti e licenziamenti alla porta.


Ora il punto è capire se si tratta solo di una vicenda che racconta del declino di una professione e di un ceto intellettuale che, come i professori, a metà degli anni 60, o i geometri negli anni 70, o i bancari negli anni 90, perde l’aura e le gratificazioni per avvitarsi in un processo di piccolo imborghesimento sociale. O invece quello che balla in questa è il destino del sistema nazionale della comunicazione. E qui veniamo alla gestione della sconfitta. Perché che di sconfitta si tratta, voglio sperare non si debba discutere. Una sconfitta che non è misurabile con dati quantitativi. In un confronto sindacale non è difficile trovarsi in una situazione in cui si deve cedere. Capita di perdere. Bisogna però intanto capire che si è perso e non mentire a se stessi. Secondo bisogna avere la lucidità e la volontà di individuare le ragioni della sconfitta, anche quando queste coincidono con i propri destini personali. Questo deve fare un gruppo dirigente che, senza alcun disturbo e insidia, ha gestito in dieci e più anni, il destino della categoria. Ed è quello che non sta avvenendo.

Noi abbiamo perso ma ancora non abbiamo capito da dove sono arrivati gli schiaffoni. Il punto è che da anni, diciamo da almeno il 2002, si annunciava il cambio di fase. E’ davvero singolare che la categoria deputata all’informazione, a viaggiare, a capire come gira il fumo nel mondo, non abbia percepito la minima avvisaglia di un terremoto che avrebbe cancellato ogni rifugio. Quello che sta mutando non è, come forse pensano persino qualche editore, il rapporto di forze che permette di recuperare potere e denaro in azienda. Questo è l’errore che commise Romiti alla Fiat dopo la sconfitta della FLM nel 1980. Abbiamo mano libera e ci riprendiamo la nostra fabbrica e i nostri dividendi. Dopo dieci anni la Fiat cominciò a boccheggiare. Quello che stava mutando nell’80 non era solo il modo di fare l’auto, ma il modo di usarla e di compararla da parte degli automobilisti. Gli stessi operai della Fiat, e ancora di più i famosi 40 mila quadri che sfilarono dietro ad Arisio annichilendo i dirigenti sindacali, pretendevano di più dalle auto. Volevano un sistema di trasporto individuale, confortevole e a forte identità. I giapponesi lo compresero, gli europei no. Oggi nell’informazione non siamo distanti da uno scenario simile. Non cambia il modo di fare giornali e TV, quello è cambiato dieci anni fa e chi non se ne accorto beato lui. Cambia il modo di usare l’informazione. L’edicola non è un tabernacolo davanti al quale ci si mette in fila, ma diventa una boutique dove si sceglie per identificazione e coinvolgimento emotivo. Esattamente come quando si sceglie una giacca o un ristorante.


Internet è stato il braccio armato di questa rivoluzione silenziosa. La rete sempre più è diventata non la vetrina dove posizionare le proprie copertine, ma la fabbrica dove realizzare i propri contenuti. E la rete non è uno strumento amorfo, ma ha un’anima, ha una cultura. La domanda da farsi è: perché Internet ha sconvolto il mondo dell’informazione più di quanto lo abbiano fatto il telefono, o la radio, o la TV, che pure introducevano innovazioni clamorose e spettacolari per il loro tempo? Il motivo è che Internet è un sistema sociale ed è sospinto da una nuova figura che rompe con lo scenario precedente, cosa che non facevano la radio e la TV, ossia l’individuo produttore, la voglia e la possibilità di intervenire nel processo di fabbricazione della notizia. Questa è la novità. Una sconvolgente novità per chi fa di mestiere il mediatore e campava sull’esclusione della massa dalla possibilità di interferire sul processo di produzione delle notizie. Ora il punto è capire come ritrovare un ruolo e una centralità, non tanto per la categoria dei giornalisti, quanto per il loro sistema di garanzie e di valori sociali,quali la trasparenza, la libertà, il pluralismo, la competitività.

Su questo punto il contratto è un fallimento. Non offre alcun elemento per ripartire, per riproporre un ragionamento di alto spessore per il mondo dell’informazione. Ed è un fallimento per i giornalisti, che vedono umiliate le proprie ambizioni, ma anche per il sistema paese, che vede raggrinzire il proprio sistema informativo in una logica ragionieristica di pura sussistenza nelle pieghe del mercato. Senza ambizioni di competitività internazionale e di abilitazione a produrre informazione ai nuovi soggetti, come i territori, gli enti locali, le comunità professionali, ecc. La sconfitta dei giornalisti rischia di spingere il sistema editoriale italiano ad accucciarsi in una risibile autosufficienza, limitando gli investimenti sulla convergenza e adattando il sistema industriale ad una precarietà organizzata. La mancanza di una controparte che solleciti e spinga il sistema a nuove condizioni di competitività, che non possono esaurirsi solo in un generico cost cutting, ma devono anche investire gli aspetti tecnologici e professionali, deprimerà l’intero mercato nazionale, riducendo anche gli stimoli per le nuove iniziative come appunto Agoravox.

Non siamo nell’editoria in una fase di congiuntura finanziaria, come sembra leggendo il contratto. Siamo in una fase di ristrutturazione e riorganizzazione strategica del sistema di elaborazione e comunicazione dell’informazione. Siamo nella fase in cui i sistemi si confrontano in base alla propria capacità di ricerca on line, alla propria potenza di calcolo, al proprio sistema di ibridazione delle professioni, alla propria capacità di auto progettazione dei sistemi intelligenti. Non si tratta di distribuire qualche redattore in più sui siti pubblicitari, o disporre di qualche smanettone in più in redazione al posto di qualche vecchio babbione giornalista come me. Qui il punto è riorganizzare il sistema di identificazione, selezione e formattazione delle notizie. Della loro trasversalità sulle diverse piattaforme, del modo in cui le fonti sono incrementate e le voci moltiplicate. Siamo ad un tornante 100 volte più complicato e inedito di quello che all’inizio degli anni 80 impegnò i nostri colleghi che guidarono il processo di transizione dal caldo al freddo nella produzione dei quotidiani. Voltandoci indietro quella fase ci appare teneramente naif rispetto ai problemi attuali. Eppure l’impegno e l’elaborazione sindacale di allora fu gigantesca rispetto al nulla di oggi. Si tratta di parlare alle decine di migliaia di giovani che disseminati negli anfratti della rete rischiano di diventare i crumiri di domani, mentre dovrebbero essere i prototipi di un nuovo giornalismo italiano, di un nuovo mondo professionale che renda questo paese non solo una platea per paytv e server giornalistici esteri.

Io credo che questa discussione sia troppo seria e drammatica per lasciarla solo ai giornalisti. Ma al tempo stesso non penso che sia una buona cosa prescindere da questo mondo. Allora che la rete si impossessi di questa sconfitta. La analizzi e la discuta. Che i giornalisti si guadagnino il diritto di parola riconoscendo il fallimento di una gestione sindacale ottusamente emergenziale e dicano no al contratto per dire si alla realtà. E che tutti assieme ci si metta al lavoro. Non c’è nulla del passato che valga la pena di conservare oggi. Mentre il futuro non può dipendere dal bilancio di un editore.

Commenti all'articolo

  • Di francesca pitta (---.---.---.108) 30 marzo 2009 12:12
    Francesca Pitta

    Buon giorno, difficile commentare il suo lungo intervento.....nn voglio esprimere giudizi di ordine politico o sindacale, il contratto nn mi piace ma i conti con il multimediale andavano fatti. siamo una categoria molto conservatrice, antica, decisamente egoriferita ( nn a caso la rappresentanza maschile è maggioritaria). Corporativi e spaventati nn abbiamo saputo affatto cavalcare l’onda di un cambiamento assolutamente inevitabile. Sa cos’è la cosa che mi meraviglia sempre? Facciamo un mestiere che si dovrebbe basare sulla curiosità invece siamo sempre meno curiosi- soprattutto a casa nostra. Condivido il suo invito a discutere tutti insieme di ciò che sta accadendo,soprattutto perchè la libertà d’informazione è un fatto che riguarda tutti, nn solo i giornalisti.
    Mario Borsa - il mio bisnonno - a questo proposito scrisse delle righe illuminanti nelle prime pagine della sua La libertà di stampa. Scrisse che, siamo nel 1926, più dei giornalisti dovevano scendere in piazza i cittadini x difendere la libertà d’informazione. Ecco, oggi è la rete , secondo me, quella cui bisognerebbe girare l’invito. Ho come la vaga impressione che ci aspettino tempi molto difficili... e nn sto parlando solo della perdita di posti di lavoro. Cmq, vedremo. Grazie, francesca

  • Di antonio brindisi (---.---.---.82) 30 marzo 2009 15:25

    L’accordo per la firma del contratto dei giornalisti arriva per garantire quei pochi che hanno ancora un contratto nazionale, in genere velinari del potere. Arriva, con iniziativa di Paolo Bonaiuti, per evitare che ci si addentri troppo in quelle problematiche che tu descrivi. Diciamoci la verità: il giornalsimo in Italia non esiste più. L’informazione è completamente taroccata. Il conflitto d’interessi non permette a nessuno di avere la schiena diritta, pena l’allontanamento. Oggi ci sono decine di migliaia di disoccupati, innoccupati, precari, freelance e falsi freelance, pagati anche tre auro a pezzo, per una carta stampata ormai in declino, che forse ancora funziona per le piccole realtà. I grandi giiornali scrivono per pochi noti, che si parlano tra loro. I talk show parlano di un mondo lontano dalla realtà di tutti i giorni. Oggi, l’informazione vera viaggia solo sul web, perché, come dicevi, nessuno si può più arroccare il diritto di parlare e mediare per gli altri, a meno di un’etica ed una professionalità che non esiste più. Oggi, il giornalismo e l’informazione italiana non esistono più. Tutto possono scrivere, gratis. Cercandosi un altro lavoro.

  • Di Caplaz (---.---.---.50) 31 marzo 2009 07:31

     Un contratto caro Mezza, a quanto ho capito, che porterà vantaggi ai soliti noti, a quei "velinari del potere" e basta, che minimamente spremono le proprie meningi per la realizzazione dei loro pezzi, ma si affidano ai puri comunicati con un bel copia e incolla. Una parte normativa di questo contratto, ancora tutta da vedere, ma che non accontenta minimamente i collaboratori di ogni sorta,specie per coloro che vengono pagati a "pezzi". con tariffe da fame dai quotidiani locali o regionali che siano.
    La parte economica porterà infine qualche piccolo vantaggio a questi ultimi, oppure no?

  • Di Caplaz (---.---.---.50) 31 marzo 2009 07:33

     Un contratto caro Mezza, a quanto ho capito, che porterà vantaggi ai soliti noti, a quei "velinari del potere" e basta, che minimamente spremono le proprie meningi per la realizzazione dei loro pezzi, ma si affidano ai puri comunicati con un bel copia e incolla. Una parte normativa di questo contratto, ancora tutta da vedere, ma che non accontenta minimamente i collaboratori di ogni sorta,specie per coloro che vengono pagati a "pezzi". con tariffe da fame dai quotidiani locali o regionali che siano.
    La parte economica porterà infine qualche piccolo vantaggio a questi ultimi, oppure no?

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