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Il Ripasso 6: Talking Heads

In questa sorta di rubrica si retrocede inconsapevolmente nel tempo. Contrario in modo statutario alle “magnifiche sorti e progressive” applicate alle arti e quindi alla musica, mi muovo in questi modesti articoli come un gambero.

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E giungo ai Talking Heads, una band costituitasi nell’ambito di un’accademia di belle arti nella metà degli anni 70. La figura perno è il geniale David Byrne, attratto dall’avanguardia storica, un giovane intellettuale che trova nella performance artistica e musicale la propria dimensione espressiva. Passa anche un periodo come busker sulle strade degli Stati Uniti, per poi tornare a congiungiersi al compagno di studi Chris Frantz, batterista.

 

 

Siamo nei primi anni ’70. Tina Weymouth, fidanzata di Frantz, viene invitata nella band come bassista; gli album di Suzi Quatro saranno la base per imparare a suonare lo strumento. Il trio è formato, si trasferisce a New York e inizia ad esibirsi in giro per locali e pub. Inoltre il terreno è fertile per intrattenere rapporti fecondi con intellettuali e artisti con i quali possono reggere brillantemente il dialogo.

Il tastierista Jerry Harrison, attivo fin dalla fine degli anni ’60, appena terminata l’esperienza nei The Modern Lovers di Jonathan Richman, rimane subito impressionato dalle scarne canzoni e dalla performance nevrotica di David Byrne sul palco, forse un Jonathan Richman in versione intellettuale, meno fragile, meno delicato. Chiede di entrare nella band, viene accettato e, oltre alle tastiere, gli viene assegnato anche il ruolo occasionale di seconda chitarra.

E’ con questa formazione che riescono a esibirsi al CBGB’S, il locale dove in quel periodo calcano le scene Patty Smith, i Television di Richard Hell, i Ramones. Riescono a incuriosire proprio per la loro diversità, il loro aspetto da studenti perbene. Il loro linguaggio non è la poetica violenta e la disperazione esistenziale dei tanti artisti in rivolta, ma neanche la demenzialità deflagrante dei Ramones. I Talking Heads colpiscono per la loro straniata ironia, per le loro storie quotidiane, semplici, ambigue e perciò irriverenti. Dal titolo del loro primo album dimostrano di aver capito più di altri di stare attraversando un anno epocale: si chiama 77, ed è la celebrazione di un momento che, a livello internazionale, segnerà una generazione.


Il disco non si può dire sia un successo travolgente, ma i Talking Heads raccolgono il rispetto della ostica scena musicale newyorkese, tanto da diventare la band che precede i concerti dei Ramones in Inghilterra. L’occhio attento di Brian Eno li individua durante un loro show di apertura e, oltre a omaggiarli in un suo disco con una canzone dal titolo-anagramma (kings’ lead hat), li convince ad essere il produttore del loro secondo album del 1978 “More Songs About Buildings and Food“.

Rispetto ai suoni scabri, semplici del precedente album il lavoro di postproduzione è più raffinato. Ma Eno nella sostanza non intende stravolgere lo stile della band, mantenendo integre le melodie, aggiungendo una ritmica basso-batteria più pulsante e una presenza dei sintetizzatori ad arricchire il suono con linee semplici e ripetitive. Il suono risulterà più pastoso e completo.


Con il terzo album Brian Eno sembra entrare maggiormente nella progettazione autoriale. Come il montaggio nella cinematografia è un momento creativo decisivo e importantissimo, lo stesso vale per la postproduzione in musica. Già solo questo rende Brian Eno e tanti produttori di talento come lui meritevoli della massima stima.

Qualcosa si trasforma anche nella struttura delle canzoni. A dimostrarlo è il brano di apertura, “I Zimbra” dove alla elaborazione di un testo dadaista di Hugo Ball (il background intellettuale di David Byrne), si affiancano arrangiamenti e ritmiche africane e fraseggi ipnotici alle chitarre (Robert Fripp) voluti da Brian Eno, che determineranno la futura linea musicale dei Talking Heads.

Siamo ancora in una fase di transizione, anche se il bellissimo titolo del disco “Fear of Music (una situazione che si verifica in alcuni casi estremi di ansia o psicosi, dove la musica crea un forte disagio) sembra quasi simboleggiare la consapevolezza del gruppo del cambio di identità. “Memories Can’t Wait” è ancora canzone, ma a un certo punto cresce quasi impercettibilmente di tonalità, creando così una piccola stonatura, in mezzo ai mille effetti aggiunti agli strumenti. Una violenza voluta nei riguardi della percezione della forma canzone. “Drugs” è l’evoluzione di questo concetto portata a compimento: samples, paesaggi sonori, brevi elementi elettronici si affastellano in un tappeto sonoro straniante. Ora la forma canzone dei primi due dischi è completamente disgregata.


1980. Il nuovo decennio si apre con “Remain in Light”, un album dove la coppia Eno/Byrne ha preso saldamente il comando del gruppo. E’ un disco sperimentale, con un lavoro di postproduzione perfetto. I brani sono riff mandati in loop, a volte dolenti, a volte sostenuti da una robusta ritmica funky. E’ presente anche la world music reinterpretata dai suoni eterei della tromba di Jon Hassell. Eno è più che parte del gruppo il coordinatore assoluto, tanto da invadere con la sua voce i cori durante tutto l’album.

Il progetto, pur essendo ambizioso, è perfettamente riuscito, ed estrapolare qualcosa dall’insieme è come ritagliare la parte di un arazzo. E’ l’ascolto complessivo del disco che spiega la coerenza dell’operazione; solo così si gode dell’identità dell’opera e delle sue caratteristiche. “Once in a Lifetime” non si sottrae allo schema base del progetto: annullare l’idea di canzone riducendola a spunto musicale ripetuto, elevando invece a valore assoluto l’accostamento dei suoni elettroacustici e l’assemblaggio che ne consegue. L’intero disco è una grande opera d’arte concettuale in musica.

Once in a Lifetime” è il singolo di successo, è il momento più godibile del disco, a dispetto del testo emblema della nevrosi dell’uomo metropolitano e dei suoi valori messi in dubbio. Il messaggio è riprodotto perfettamente dal videoclip originale, con una indimenticabile coreografia di David Byrne, che associa i gesti delle danze tribali agli scatti epilettici del “middle class man” in crisi.


The Name of This Band is Talking Heads” è una antologia dal vivo che copre dai primi concerti nei piccoli club agli inizi carriera fino ai grandi show che accompagnano l’uscita di “Remain in Light” e che portano in giro la band in una lunga tournée. Insieme a loro ci sono fra i migliori musicisti della scena funky e il chitarrista sperimentatore Adrian Belew.

Brian Eno considera l’esperienza con la band terminata già da “Remain in Light”, e il suo segno sonoro scompare con lui. Nel 1983 esce “Speaking in Tongues”: il nuovo album è una raccolta di brani che si adeguano alla scena musicale dell’epoca, ed è tutto sommato un disco gradevole ma privo di elementi che lo rendano speciale, a partire dall’abbandono di ogni esperimento in fase di produzione.

La credibilità che vantano presso la scena artistica è invece ancora solida. Il giovane regista Jonathan Demme li segue nei concerti di promozione dell’ultimo disco e ne esce un bel documentario, grazie anche ad intuizioni sceniche geniali, come l’entrata progressiva dei musicisti canzone dopo canzone fino a comporre l’intera formazione. Inoltre sono numerosi i cambi d’abito del performer David Byrne; fra questi rimane memorabile il vestito di numerose taglie più grosso rispetto all’esile corpo del leader dei Talking Heads. Del documentario esce anche una versione in disco, intitolata “Stop Making Sense”.

Dall’uscita dell’album dal vivo tratto dal documentario passa solo un anno e i Talking Heads producono “Little Creatures”, nel quale, pur adeguandosi ai tempi che passano, investendo sui suoni curati degli album mainstream degli anni 80, sembrano tornare alle origini della loro carriera con canzoni più immediate. Realizzano anche un paio di singoli di successo.

David Byrne si lancia anche nella regia cinematografica con “True Stories”, inevitabilmente una satira sulla vita della provincia profonda degli Stati Uniti. Esce la colonna sonora del disco, curata da vari musicisti, e poi a seguire un disco omonimo a cura dei Talking Heads.

Rispetto ai precedenti “True Stories” è una sorpresa: i brani posseggono una maggiore energia, sembrano quasi registrati in presa diretta, e l’effetto è notevole. Il disco attraversa dal Cajun del sud alla Country Music, ma la cosa migliore è il puro Rock’n'Roll, senza compromessi, divertente, quello dei due brani “Love for Sale” e “Wild, Wild Life”.

Arriva un momento nelle band in cui si capisce che si è dato tutto il possibile. Questo momento nella storia dei Talking Heads ha un titolo: “Naked”, album del 1988. Una serie di canzoni deboli infarcite di sezioni fiati e percussioni sudamericane che lasciano intravedere l’attenzione di David Byrne spostata tutta verso la sua nuova casa discografica di World Music “Luaka Bop”.

Byrne continua a sfornare progetti solisti fra un vernissage e l’altro, entrato nell’empireo dei rockstartisti (rockstar-artisti, vi piace?) come, fatte le debite distinzioni, Lou Reed, Peter Gabriel, David Bowie e Brian Eno (il più astuto “demiurgo” della storia del rock).

Gli altri del gruppo invece, trattati sempre da comprimari, tenteranno infruttuose carriere soliste, per provare poi a rianimare il cadavere dei Talking Heads con conseguenti strali legali da parte di David Byrne. Ma lasciamo perdere il gossip, il narcisismo e le beghe sui diritti di proprietà; in realtà non c’è nulla di meglio per concludere questa storia con una bella immagine dedicata a una coppia ancora solida nell’arte e nella vita, cioè Chris Frantz e Tina Weymouth. Viva l’amore!
 

 


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