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Gilioli: Internet in Italia? "Ci vorrebbe una rivoluzione culturale"

Gilioli: Internet in Italia? "Ci vorrebbe una rivoluzione culturale"

Nella “mazzetta” delle letture in rete di prima mattina, che ormai da tempo va oltre la sola carta stampata, il blog di Alessandro GilioliPiovono Rane” è senza dubbio uno dei primi da leggere. Il giornalista dell’Espresso si è ormai costruito una solida reputazione tra i naviganti tanto da diventare, possiamo dirlo, uno degli opinion leader della rete.
 
L’onestà intellettuale è uno dei fattori che deve contraddistinguere il giornalista e il blogger, anche più di quell’oggettività di cui una volta si faceva fregio il miglior giornalismo: “Credo che l’onestà intellettuale sia prioritaria rispetto alla cosiddetta obiettività”, ci dice Gilioli che abbiamo incontrato al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, terminato domenica 25. Inoltre eravamo appena usciti da un panel che trattava proprio l’argomento del rapporto con il lettore (qui e qui due sintesi) e il discorso non poteva cadere che su quell’argomento.
 
Sei un giornalista dell’Espresso e sei titolare del blog più letto d’Italia, qual è il tuo rapporto col blog?
Beh, non è il primo (lo è tra i blog politici, nella classifica wikio, ndr), ma ha una sua nicchia di lettori, il che oltre a essere chiaramente una soddisfazione è un lavoro divertente e consente un dialogo molto più diretto con gli utenti, o i lettori che dir si voglia, è una cosa che migliora anche professionalmente e questa continuità di relazione con i lettori consente di stare più attenti alle cose che si scrivono, di verificare in modo più puntuale e non dimentichiamoci che fino a dieci anni fa i giornalisti quando scrivevano consegnavano il pezzo poi le reazioni dei lettori erano al massimo affidate a qualche lettera cartacea che poi finiva il più delle volte nel cestino. Il dialogo continuo coi lettori permette di correggersi, di migliorare, di stare più attenti alle fonti, di verificare con più puntualità e quindi fondamentalmente uno strumento di miglioramento professionale e se posso dirlo, forse anche con qualche pretesa è anche un piccolo strumento di battaglie, non dico politiche, ma civili che consente di portare avanti dei temi che magari ti stanno a cuore e che sul giornale non trovano spazio
 
Hai toccato due punti che volevo approfondire: il primo è che tu dici che online c’è un controllo maggiore delle fonti il che dà più credibilità, cosa che non sempre viene riconosciuta.
Io la penso alla rovescia, penso che quando un giornalista, e non sempre un giornalista professionale, ma anche un citizen journalist scrive online ha un’immediata quantità di feedback che è costretto al meccanismo dell’autocorrezione, il famoso meccanismo di wikipedia. Allora, online c’è tutto, ci sono cialtroni, ci sono professionisti, ci sono non professionisti non cialtroni, ci sono professionisti cialtroni, c’è di tutto, è vero che se uno punta ad avere una credibilità e un minimo di reputazione online, o in generale un minimo di reputazione ha la necessità continua di autocorreggersi, di stare attento e al limite anche di cambiare idea no? Perché online questo dialogo continuo consente anche - anzi impone - di cambiare idea se hai detto una scemenza, e di scemenze ne diciamo tutti tante, solo che una volta le dicevamo e il giorno dopo il nostro pezzo serviva per incartare la rucola come diceva il mio caporedattore quando ero più giovane. Adesso no, resta lì per sempre o comunque per un periodo molto più lungo e quindi ti obbliga a una riverifica continua. Io credo che sia un miglioramento professionale per tutti, professionisti e non.
 
La seconda è invece come cambia l’idea di giornalismo. Hai detto che adesso è “militante”...
... no militante è una parola grossa... direi attivista.
 
Ok diciamo attivista, in ogni caso è caduta l’idea di obiettività...
Dunque, obiettività è una parola difficile di cui potremmo parlare per ore, quello che conta è la trasparenza, la correttezza, la non ideologia, nel senso di non utilizzare gli occhiali dell’ideologia, ma di cercare sempre l’onestà intellettuale in quello che si scrive, dopodiché è ovvio che quando io scrivo sul mio blog scrivo io in prima persona, per quanto faccia parte della testata L’Espresso, e quindi le opinioni che esprimo sono opinioni mie, non c’è soltanto cronaca; quando invece lavoro per la testata cartacea, presento di più la testata nel suo complesso, e quindi lo spazio di intervento personale è minore, anche se c’è, non è che sia negato... ma credo che l’onestà intellettuale sia prioritaria rispetto alla cosiddetta obiettività, che è un modello, certo! Se la intendiamo per “non dire bugie”, “non forzare i fatti", cosa che viene fatta molto sia da destra che da sinistra per dimostrare una tesi, ecco, questo è importante, non forzare i fatti per dimostrare una tesi, ma cercare di interpretare i fatti senza forzarli, questo forse è il massimo dell’obiettività che può raggiungere un giornalista, insieme alla trasparenza delle proprie idee, cioè non camuffare le proprie idee. Poi l’obiettività assoluta è un tema molto molto molto ampio che forse non possiamo affrontare in pochi minuti.
 
E invece come gestisci gli spazi e anche le storie tra il cartaceo e l’online?
Sono linguaggi completamente diversi. Io all’inizio, quando ho cominciato a fare il blog nel 2002, ci mettevo dentro anche i pezzi che scrivevo per il cartaceo, poi mi sono accorto che i linguaggi erano talmente diversi e il modo di porsi al lettore talmente diversi che ho smesso, quindi quello che oggi scrivo per il cartaceo raramente finisce sul mio blog, anzi mai, ormai, perché il modo di scrivere che ho per il cartaceo è, non voglio dire più ortodosso, ma sicuramente più addentro a certi quadri, certi frame che riguardano il giornalismo cartaceo che sono stati, invece, spezzati - non voglio dire distrutti ma terremotati - dal linguaggio che si usa per un blog; quindi, ormai, sono due cose diverse e poi è vero anche che il linguaggio dei blog e ormai anche quello dei social network comincia osmoticamente anche a penestrare nella carta stampata, sicché si comincia a vedere anche lì un linguaggio più diretto, più scravattato, più deistituzionalizzato, anche più personale. Io ricordo, quando avevo cominciato negli anni 80, la regola fondamentale era che ogni giornale doveva essere scritto nello stesso modo dalla prima all’ultima riga, quindi gli stili personali erano abbastanza banditi, invece il blog è il contrario, è un’esaltazione dello stile personale e vedo che questo un po’ sta tracimando nella carta stampata, me è un processo graduale e io non ritengo neanche che sia negativo il fatto che media diversi, piattaforme diverse abbiano linguaggi diversi.
 
Neghli Usa esistono giornali come l’Huffington Post, Politico o in Francia come lo stesso AgoraVox, Rue 89 etc... ovvero testate nate online molto forti. Credi sia possibile che si arrivi a questo livello in Italia, che si possa addirittura a raggiungere l’importanza che l’Huffington ha come opinion leader e se sì, quando sarà possibile, date le nostre carenze culturali e infrastrutturali?
Intanto partiamo dalla base, in Italia ci sono 25-27 milioni di internauti e questo vuol dire che metà della popolazione non ha mai messo le mani su un computer, non ha mai lanciato un browser, quindi c’è un problema di digitalizzazione della popolazione molto ampio. Siamo l’unico paese in Europa che non ha un piano per la banda larga, siamo l’unico o uno dei pochissimi paesi nel mondo in cui internet viene ancora demonizzato dai grandi media, soprattutto la televisione, si parla di internet solamente per parlare della ragazza che è stata stuprata da un amico dopo averlo conosciuto in facebook, piuttosto che dei virus, del phishing, cioè si vede solo l’aspetto negativo di quella grande metropoli piena di opportunità che è internet, i tg parlano solo della suburra, delle periferie degradate e allora il primo passo per arrivare, non dico all’HP, ma in generale a un’informazione online che abbia la stessa o maggiore dignità dei mainstream media storici; bisogna fare una rivoluzione culturale che porti il nostro paese a non essere più nemico o comunque lontano dalla rete. Se noi pensiamo che fuori dalle grandi città la gente si deve ancora collegare alla rete con un doppino di rame che lo costringe ad aspettare mezzora per caricare un video capiamo che il problema non è l’HP, il problema è la digitalizzazione, non dico delle periferie, ma di larghi strati della popolazione. È una rivoluzione culturale che va fatta perché il nostro al momento non è un paese per internet. Se guardiamo le classifiche, non è che andiamo avanti, ma indietro. In tutte le classifiche mondiali che guardano, ad esempio, la diffusione della banda larga, piuttosto che la frequentazione della rete, vediamo che noi siamo superati da paesi in via di sviluppo o da paesi che storicamente più indietro di noi, dalla Spagna alla Grecia e perfino il Portogallo, quindi c’è una rivoluzione culturale da fare in Italia, poi dopo parleremo dell’HP.

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