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Genova alla continua ricerca della sua identità

Genova alla continua ricerca della sua identità

Il più recente Genova e le sue storie (Bruno Mondadori, 2004) nasce invece dall’esigenza di costruire un’immagine letteraria alla nostra città. “Un libro su Genova come Dubliners di Joyce sarebbe straordinario”. Secondo lui Genova è un libro mancato. “Tutte le grandi città hanno il loro libro, Milano ha I Promessi sposi, Roma ha Gli indifferenti e molti altri, a Genova c’è stato il tentativo di Remigio Zena con La bocca del lupo, un libro di buona qualità, poi nessuno si è più cimentato in questa impresa. La prima edizione di ’Genova e le sue storie’ è del 2004, è uscito in occasione delle celebrazioni per Genova capitale europea della cultura. L’editore mi aveva chiamato chiedendomi di realizzare una guida su Genova”. In realtà è una guida non convenzionale, con intento polemico, il cui scopo è divertire, un tour che esplora le caratteristiche di Genova e dei suoi abitanti, ne mette in luce difetti e vizi antichi, attraverso testimonianze storiche e letterarie che forniscono molteplici spunti di riflessione. “Quello che mi interessa principalmente è indagare il carattere dei genovesi”. Con il professore abbiamo approfondito alcuni temi particolarmente significativi per la realtà odierna.
 
Marcenaro dedica un capitolo allo storico cardinale, Giuseppe Siri, “Figura emblematica di genovese” e all’impronta indelebile che ha lasciato sulla città e sulle coscienze dei cittadini con il suo conservatorismo inflessibile. La tendenza all’immobilismo, tipica delle strutture sociali che hanno dominato Genova, ha forgiato il carattere degli abitanti, sin dal 1628, quando Giulio Cesare Vacchero, colui che aveva cospirato contro la Repubblica, fu punito duramente, decapitato e il suo palazzo raso al suolo. ”Guai a chi osasse mettere a repentaglio l’equilibrio del governo cittadino”. Nei secoli la vecchia oligarchia si è trasformata, ma non è tramontata. “Si è autoriprodotta nei vari gruppi che impongono un potere di posizione, dando luogo a tanti monolitici piccoli soviet, somiglianti in maniera sorprendente agli antichi alberghi in cui si consorziavano le famiglie nobili e che hanno fatto scuola, diffondendo un sistema di protezione e privilegio chiuso, caparbio e ostinato, per conservare i diritti di casta… I borghesi del soldo si considerano gli eredi naturali delle passate grandezze. La ‘nobiltà operaia’ dell’industria, della cantieristica – un tempo nella Stalingrado d’Italia (Sampierdarena) e nella Piccola Russia (Sestri Ponente) – e la corporazione dei portuali, appartenenti ormai a un giurassico genovese, orgogliosi del monopolio di una verità, hanno diffuso la convinzione che il bene collettivo – posto interessi – può venire soltanto dai circuiti chiusi”. Non c’è posto per chi è diverso e non allineato. 
“Genova è davvero come la fortezza Bastiani di Dino Buzzati”. Siamo circondati da mura, e non si tratta solo della nostra storica cinta muraria ma di barriere mentali difficili da abbattere.
 
“Nel 2004 quando scrivevo questo libro ero convinto che la città avesse ancora una possibilità di rilancio”. Un risveglio che può avvenire solo attraverso i tanto odiati forestieri, la nuova massa di turisti che muove verso Genova attratta da tesori sconosciuti e nascosti per anni, che oggi ritrovano la luce. “Attualmente non sono più convinto che Genova possa rialzarsi. Viviamo un momento di eclissi. E’ una questione di mentalità e non di appartenenza politica. Le amministrazioni cittadine, di qualunque colore siano, in questi anni hanno dimostrato spesso la medesima chiusura mentale. Oggi si è fatta la scelta di privilegiare la promozione di una cultura popolare facilmente accessibile. L’esempio tipico è la notte bianca. Ma a cosa servono le notti bianche se poi da tempo non si organizzano mostre importanti a Palazzo Ducale? Genova non sa più pensare in grande, non sa osare, è questo il problema. Oggi è passato il concetto che Genova è la città di De Andrè.
 
Ma Genova non è solo De Andrè. Genova è anche la città di Eugenio Montale, un premio Nobel per la Letteratura, attualmente quasi dimenticato. Durante i miei viaggi, la passione per lapidi e targhe mi porta sempre alla ricerca di queste testimonianze storiche. Nel 2004 avevo proposto di installare qualche lapide anche nella nostra città per mostrare ai tanti turisti stranieri che famosi loro connazionali erano passati di qua. Mi sarebbe piaciuto che nell’atrio della stazione Principe fosse ricordato che lì era arrivato Arthur Rimbaud. Anche perché l’ultima città che il poeta vide fu proprio Genova e da qui partì per l’Africa abbandonando la poesia e dedicandosi al commercio. Oppure in via Balbi ricordare la testimonianza di Sthendal che la definì una delle più belle strade del mondo. Questa idea è caduta nel vuoto. Il discorso fondamentale è che non sappiamo promuovere la città”.
 
Il capitolo dedicato a Piazza Banchi analizza quasi sociologicamente le trasformazioni della città. Passeggiando in questi giorni nei dintorni di Piazza Banchi si percepisce una città alla continua ricerca della propria identità. Per la piazza che fu il centro degli affari della Superba si incrociano turisti, extracomunitari, qualche tossico ciondolante, e sparuti genovesi che si aggirano con occhio vigile, rappresentazione di universi a sé stanti, che si ignorano ma sono costretti a vivere a stretto contatto. L’immagine di via S. Luca, via Orefici, via S. Pietro in Banchi con le loro file di negozi e lo strùscio della gente, contrasta nettamente con il degrado e il colpevole abbandono in cui giàcciono i vicoli adiacenti. Sedute sui gradini, di fronte ai bassi, le prostitute ci osservano nell’attesa di clienti. “E’ il fascino babelico della nostra città”.
 
Una città che si interroga sul proprio destino. “Oggi Genova deve decidere da che parte stare. O diventa una città multiculturale oppure decide di chiudersi dentro le proprie mura. Ma una decisione va presa, bisogna trovare una nostra identità. Impariamo a decidere. Qui invece abbiamo la tendenza ad aspettare che gli avvenimenti avvengano, inevitabilmente. Ne è un esempio la questione della moschea. Per me va fatta. Ma bisogna che una decisione venga presa una volta per tutte e smetterla con il continuo tira e molla. Abbiamo il culto del non fare e del non lasciar fare. Questo è il concetto che ci sta portando alla decadenza”.

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