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Fra le righe del discorso di fine anno del Presidente della Repubblica

Per noi cittadini non sono certo una novità la sobrietà e la misura del Presidente della Repubblica, che non sono certo mancate neanche nel suo bel discorso di fine anno. Perciò, quello che ci ha maggiormente colpito, è stata la sua umanità.

Giorgio Napolitano ha toccato argomenti come l’impegno ed il sacrificio delle Forze Armate nel difendere la pace e la democrazia in lontane e pericolose contrade; come la reciproca solidarietà con gli immigrati che hanno deciso di condividere con noi un unico destino; come la differente incidenza della crisi economica globale sui diversi soggetti e sulle diverse concrete situazioni che convivono nella nostra comunità nazionale; soprattutto, però, ha dedicato il suo intervento ai giovani ed al senso di precarietà che si è impadronito della loro esistenza.

Ha messo al primo posto la constatazione che la carenza di speranze e di obiettivi per i giovani finisce per ricadere gravemente sulla democrazia e sull’intera comunità nazionale, mettendole in crisi; ha anche detto che è altrettanto sbagliato dare ad essi false e sbagliate convinzioni, come quella di poter vivere al di sopra delle nostre possibilità lasciando alle generazioni prossime venture il compito di pagare i nostri debiti sotto forma di debito pubblico. Da ciò consegue la necessità di opportune scelte per evitare la riduzione di risorse per la cultura, per l’istruzione e per la formazione: i tagli devono essere fatti altrove e non in questi settori strategici, altrimenti si materializza il rischio del nostro declino, pur all’interno della Comunità Europea.

A questo punto, però, non tutto appare coerente e concluso al vostro reporter. Il nostro Paese vive da sempre l’emergenza Sud e da essa almeno una cosa l’ha imparata: non sempre l’utilizzo di massicce risorse pubbliche riesce ad essere incisivo e vincente nell’affrontare un problema. Insomma, per analogia, asserire che il problema dell’istruzione e della formazione sta nelle risorse ad esse destinate è un a priori indimostrato.

La recentissima riforma universitaria Gelmini ha lasciato intatto il nodo della valutazione dei titoli accademici, nel nostro Paese rimasto come “valore legale” precluso alle valutazioni dei soggetti protagonisti del mondo del lavoro (società, aziende, Istituzioni, mondo delle professioni e così via). Anzi è intervenuta a statuire un faraonico e barocco sistema di valutazione, attribuendone la competenza a soggetti che ben difficilmente saranno in grado di valutare il buon fine dell’attività degli Atenei e la corretta formazione della classe dirigente del mondo della produzione e delle professioni.

Se il problema dei giovani è l’ingresso nel mondo del lavoro, orbene siamo tutti consapevoli che “i posti di lavoro non si creano per decreto”. E lo stesso vale per il progresso nelle carriere. Il vostro cronista se ne è reso conto alcuni decenni orsono quando, fresco di laurea, è andato a portare i confetti augurali ad uno zio, il quale lo ha così accolto: “Ti sei laureato in ingegneria. Bene. Allora vuol dire che non sai fare nulla”.

Fin quando l’istruzione sarà svincolata dal mondo del lavoro nessun investimento finanziario ad essa destinato sarà in grado di consentire ai giovani di trovare serenamente grazie ad essa un lavoro.

Lo stesso, e forse ancor di più, vale per la formazione. I nostri Enti di formazione si disinteressano totalmente dell’esito delle loro attività, ossia della percentuale di soggetti che riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro grazie alla partecipazione ai loro corsi. Gli stessi politici non hanno le idee chiare sull’argomento. In Sicilia il Governatore Raffaele Lombardo, tempo addietro, ha sostenuto apertis verbis che nessuno ha mai trovato lavoro grazie alla formazione nella Regione; guardandosi bene, però, dall’indicare, sempre per la formazione nella Regione, una nuova e diversa prospettiva su obiettivi condivisi e condivisibili, ad esempio un collegamento dei fondi da destinare ai programmi dei vari Enti di formazione ai risultati da questi ultimi concretamente ottenuti.

Si parla tanto di produttività, ma la parola “competizione” è stata cancellata dal nostro vocabolario.

Se continuiamo così il nostro declino è dietro l’angolo. E non vi saranno né denari né debiti pubblici di sorta atti ad evitarcelo. Anche l’umanità corre il rischio di diventare un vano esercizio se è separata da un sano realismo.

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