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Europe Calling

Fine settembre, Parigi. Sto cercando un lavoro e alcuni amici mi propongono un call center dove sono impiegati. Interviste a coloro che hanno acquistato un veicolo per testarne la qualità. Perché no? Bisogna parlare italiano, sembra facile. Telefono, mi passano una ragazza che parla italiano con un lievissimo accento francese. Prende nota del mio nome, mi chiede di inviarle Cv e lettera di motivazione.

Il giorno seguente mi reco nella banlieue parigina: villette private e stradine mi conducono ad un capannone prefabbricato che, per comodità, chiameremo Venus. Giovani e meno giovani di tutte le nazionalità mi passano davanti. Colori e timbri di voce diversi mi fanno abbandonare ad un sorriso.

L’E-generation è precarietà?

Quando entro trovo gente in attesa. Mi fermo a parlare loro e capisco che, purtroppo, l’Europa unita passa anche da qui. Sono in tanti: studenti Erasmus, semplici emigranti alla ricerca di un lavoro e di una vita migliore, anche studenti della Sorbonne. In questa fabbrica loro sono l’altra faccia della E-generation. Devono fare i conti con l’affitto, Internet lo usano solo in qualche cyber-café, il sabato è solo un altro giorno per lavorare e la domenica pure se la bolletta della luce è stata troppo salata. Sono la generazione che sui quotidiani non verrà mai fotografata perché non esiste.

Ciro ha 25 anni. Lavora per Venus da qualche mese. È un Erasmus e vuole restare in Francia per fare un Master. È ingegnere gestionale e vorrebbe occuparsi di logistica e stoccaggio. Gli chiedo che ne pensa del lavoro: «È ottimo per uno studente perché la flessibilità ti permette di gestire il tempo settimanalmente. Ma non porta nulla in termini di formazione. Ed è mal pagato». Ciro lavora venti-venticinque ore a settimana, secondo il bisogno dell’azienda. Si lamenta del rapporto con i capi: «Non c’è dialogo. Se sbagli ti riprendono, ma non ti spiegano nulla. Devi solo fare più interviste possibile».

Anne invece è tedesca. Ha un Master in Lingue. Le chiedo quanto pensa di restare a Venus. «Il meno possibile. Ho bisogno di avere più sicurezze». Che significa? «Sono stanca di dovermi preoccupare ogni settimana. A volte sbagliano il tuo planning oppure non c’è lavoro. E allora magari ti danno due giorni su sei. E l’affitto chi lo paga?». Anne lavora in media dalle trenta alle quaranta ore, e il suo sogno è inserirsi nel settore della cultura: «Quando lo fai a full time questo lavoro è allucinante». Meno di otto euro all’ora

Ci lasciamo alle spalle il tetto di plastica ed entriamo in una stanza con dei computer. Controllano i presenti e il mio nuovo capo dagli occhi blu inizia a parlarci del lavoro: disponibilità, serietà e quaranta ore di selezione, durante le quali dobbiamo dimostrare di essere capaci. Ci parla del contratto. Imparo questa nuova parola: vacataire (statuto di chi ha un lavoro precario in Francia, ndr). Tradotto: niente ferie, niente malattia, pagamento all’ora, niente buoni pasto e planning settimanale. Non è importante se non capiamo nulla di automobili – di questo trattano le interviste – dobbiamo solo trascrivere quello che l’utente, dall’altro capo della cornetta, ci dice.

Firmiamo un contratto nel quale ci impegniamo a non divulgare le informazioni che raccogliamo e accettiamo che la società ci rispedisca a casa senza preavviso e senza pagarci nel caso in cui non ci sia lavoro quel giorno. Il tutto per 7 euro e 66 centesimi netti l’ora.

Un tendine per dieci euro?

Entro nella sala dove c’è l’équipe italiana. Nelle altre: spagnoli, tedeschi e inglesi. Anche dei turchi e dei russi. Tutti attaccati alla cornetta. Mi accomodo accanto ad un ragazzo che è lì da qualche mese, ascolto le domande e leggo le sue trascrizioni. Finalmente la pausa: dieci minuti.

Al capo francese si avvicenda una giovane italiana. Ventidue anni e i tendini del braccio sinistro ricuciti. Troppe ore con la cornetta. La società ha barattato la causa per responsabilità oggettive in cambio di una promozione. Solo in quel momento rifletto sulla mancanza di cuffie.

A fine serata avrò fatto 8 ore e 15 minuti di di telefonate, intervallati da pause di 10 minuti ogni due ore ed una pausa pranzo di 45 minuti, non pagata.

Il giorno dopo alle 8 sono al lavoro. Almeno venti nazionalità e dieci lingue coprono la mia voce. Tra me e i miei colleghi meno di cinquanta centimetri: concentrarsi sulla telefonata e trascrivere diventa complicato.

Guardo i loro occhi spenti. Siamo in una catena di montaggio, senza diritti e tutele, sembra essere a Liverpool all’inizio della rivoluzione industriale. Poi mi fermo a riflettere: è Parigi, è il 2008, ci sono i sindacati. Ma non per noi. Accenno un minimo di proteste per le condizioni di lavoro verso il mio capo sudamericano, ma Diego è qui da troppo tempo e si è venduto per 10 euro e 20 centesimi all’ora. Mi risponde: «Se non ti va bene attacca la cornetta e vai via». Ha ragione. Appendo le cornetta e lascio; chiama tu alle persone alle 8 di mattina per sentirsi dire: «Mio marito non può rispondere, è in ospedale» e dovere, ugualmente, insistere per mettere l’appuntamento dopo due settimane, sperando che il marito si sia rimesso.

Siamo nel 2008 a Parigi, e i giovani di mezza Europa si incontrano in questo capannone, tutelati solo da un tetto in plastica.

Per motivi di riservatezza i nomi delle persone intervistate sono fittizi.

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